)*(Stazione Celeste)
La prova scientifica dell'esistenza di Diodi Craig Hamilton
Prima di continuare a leggere, fermati e chiudi gli occhi per un istante. Adesso poniti la seguente domanda: nell’istante in cui i tuoi occhi erano chiusi, il mondo ha continuato a esistere anche se non ne eri consapevole? Come lo sai? Se ti sembra uno di quei rompicapo senza risposta che il professore di filosofia utilizzava per stimolare la tua immaginazione filosofica, potresti essere sorpreso di scoprire che esistono degli scienziati, all’interno di università di tutto rispetto, che credono di aver trovato la risposta. E la loro risposta, che tu ci creda o meno, è «No». Adesso considera qualcosa di ancora più sconcertante. Immagina, per un momento, l’intera storia dell’universo. Secondo tutti i dati che gli scienziati sono riusciti a raccogliere, esso si è formato grazie a un’esplosione avvenuta circa quindici miliardi di anni fa, punto d’inizio di una danza cosmica di luce ed energia che continua fino ai giorni nostri. Ora immagina la storia del pianeta Terra. Una nuvola informe di cenere emerge da quella primordiale palla di fuoco, si condensa lentamente in una sfera solida, trova la sua strada nell’orbita gravitazionale intorno al sole e grazie a una complessa interazione di luce e gas produce, dopo miliardi di anni, un’atmosfera e una biosfera capaci non solo di creare la vita, ma anche di sostenerla e moltiplicarla. Ora immagina che nessuno dei fatti succitati sia mai avvenuto. Considera, invece, la possibilità che l’intera storia sia esistita solo come un potenziale astratto – un sogno cosmico tra infiniti altri sogni cosmici – fino a quando, in quel sogno, la vita si è in qualche modo evoluta portando alla nascita del primo essere senziente conscio. In quell’istante, unicamente grazie all’osservazione conscia di quell’individuo, l’intero universo (inclusa tutta la storia che ha portato a quel momento) è venuto improvvisamente alla luce. Fino a quel momento, nulla era mai davvero successo. In quell’istante, sono avvenuti quindici miliardi di anni. Se tutto ciò non ti sembra nulla di più che la trama di un romanzo fantascientifico o una versione secolare di uno dei grandi miti mondiali sulla creazione, reggiti forte: secondo il fisico Amit Goswami, la succitata descrizione è una spiegazione scientificamente fattibile del modo in cui l’universo si è formato. Goswami è convinto, insieme a molti altri, che l’universo, per esistere, richieda un essere senziente conscio che ne sia consapevole. Senza un osservatore, egli sostiene, l’universo esiste solo in potenza. E, come si dice tra i fisici inglesi, Goswani ha fatto i suoi conti. Mettendo in ordine le prove ricavate da moderne ricerche nei campi della psicologia cognitiva, della biologia, della parapsicologia e della fisica quantica, e con un occhio di riguardo per le antiche tradizioni mistiche del mondo, egli sta gettando le basi per un nuovo paradigma che definisce “Idealismo monista”: secondo quest’ultimo è la consapevolezza, non la materia, il fondamento di tutto ciò che esiste. Professore di Fisica all’Università dell’Oregon e membro dell’Istituto di Scienza Teoretica nella stessa università, Goswami è uno di quegli scienziati ribelli, sempre più numerosi, che in anni recenti si è addentrato nel campo della spiritualità per trovare una spiegazione ai risultati apparentemente incomprensibili dei propri esperimenti, oltre che per avere la conferma delle proprie intuizioni sull’esistenza di una dimensione spirituale. Il punto di arrivo del lavoro di Goswami è il libro The Self-Aware Universe: How Consciousness Creates the Material World. Partendo da un’interpretazione dei dati sperimentali della fisica quantica (la fisica delle particelle elementari), il libro lega tra loro una miriade di scoperte e teorie provenienti da campi diversi come l’intelligenza artificiale, l’astronomia e il misticismo indù, nel tentativo di dimostrare che le scoperte della scienza moderna sono in perfetta sintonia con le più profonde verità mistiche.
Secondo Goswami, la fisica quantica (così come molte altre scienze moderne) sta dimostrando che l’unità essenziale di tutta la realtà è un fatto sperimentalmente verificabile. Poiché pensa che questa conferma scientifica della dimensione spirituale contiene delle implicazioni enormi, egli si dedica con passione a spiegare la sua teoria al maggior numero possibile di persone; il suo intento è cercare di provocare quello che ritiene un indispensabile mutamento di paradigma. La sua opinione è che, siccome ora la scienza è in grado di confermare il misticismo, molto di ciò che prima richiedeva un atto di fede adesso può essere empiricamente dimostrato; quindi, il paradigma materialista che ha dominato il pensiero scientifico e filosofico per più di duecento anni può finalmente essere messo in discussione. Intervistare Amit Goswami è stata un’esperienza avvincente e intellettualmente stimolante. Mentre lo sentivo parlare delle molte idee con cui sembrava a suo agio, ho dovuto mettere da parte il mio scetticismo al punto di ritrovarmi a prendere in considerazione cose che, fino a quel momento, ritenevo inconcepibili (Goswami è anche un grande appassionato di fantascienza: il suo primo libro, The Cosmic Dancers, era uno sguardo sulla fantascienza dato con gli occhi di uno scienziato). Che si accettino o meno alcune delle sue teorie più esoteriche, la creatività e la passione che Goswami mette nella sua ricerca meritano rispetto. Chiaramente, Goswami è disposto a correre rischi per le sue idee e condivide con entusiasmo le sue ricerche con un pubblico mondiale. Discute per esteso, in conferenze e in altri forum, le sensazionali scoperte della nuova scienza e le loro implicazioni, non solo per la scienza stessa, ma anche per la società nel suo insieme. In India, il suo paese di nascita, è attivamente impegnato in un movimento in costante crescita volto a colmare la distanza tra la scienza e la spiritualità, attraverso il quale spera di creare una facoltà universitaria in “studi sulla consapevolezza”, basata sulla premessa che la consapevolezza è il fondamento di tutti gli esseri. Goswami è considerato, da alcuni, un pioniere nel suo campo. Cercando di mettere in ginocchio il realismo materialista e di integrare tutti i campi della conoscenza in un singolo paradigma unificato, egli cerca di aprire la strada per una nuova visione olistica nella quale lo spirito ha la precedenza. Di fatto, per quello che ne sappiamo, Goswami è l’unico scienziato del nuovo paradigma che abbia preso una chiara posizione contro quel relativismo tanto popolare tra i pensatori della new age. In un’epoca in cui il declino dei valori umani e l’erosione di qualsiasi significato ha raggiunto una scala endemica, è difficile immaginare qualcosa di più importante. Tuttavia, per quanto sia importante e prezioso il lavoro che Goswami sembra svolgere, alla fine nutriamo molti dubbi sul fatto che esso condurrà davvero a quel tipo di trasformazione che egli auspica. Pensatori come Huston Smith ed E. F. Schumacher hanno evidenziato quella che secondo loro è l’arroganza, o l’ingenuità, degli scienziati che credono di poter espandere il campo della loro disciplina per includere o spiegare in qualche modo la dimensione spirituale della vita. Questi critici suggeriscono che il tentativo stesso di fornire validità scientifica alla spiritualità sia un prodotto dei medesimi istinti materialisti che si vorrebbero sradicare, e che quindi, in ultima analisi, il risultato sia soltanto la riduzione dello spirito, di Dio e del trascendente a meri oggetti di interesse scientifico. La scienza è in grado di dimostrare la realtà della dimensione trascendente della vita? O renderebbe un servizio migliore al potenziale spirituale della razza umana riconoscendo i limiti del proprio campo di indagine? La seguente intervista ci pone di fronte a queste domande. Craig Hamilton: Nel suo libro The Self-Aware Universe lei parla della necessità di un mutamento di paradigma. Può dire qualcosa sul modo in cui concepisce tale mutamento? Da dove, e verso quale direzione? Amit Goswami: L’attuale concezione del mondo considera ogni cosa composta di materia. Tutto può essere ridotto alle particelle elementari della materia, ai suoi componenti essenziali o mattoni fondamentali. E la causa sorge dalle interazioni di questi mattoni fondamentali o particelle elementari; le particelle elementari compongono gli atomi, gli atomi le molecole, le molecole le cellule e le cellule il cervello. Ma dall’inizio alla fine, la causa fondamentale è sempre l’interazione tra le particelle elementari. La credenza è che tutte le cause procedono dalle particelle elementari. Questa è ciò che definiamo “causalità ascensionale”. In questa concezione, quello che gli esseri umani – tu e io – considerano il loro libero arbitrio, in realtà non esiste. È solo un epifenomeno o un fenomeno secondario, secondario al potere causale della materia. E qualsiasi potere causale che apparentemente siamo in grado di esercitare sulla materia è solo un’illusione. Questo è il paradigma corrente. Ebbene, il punto di vista opposto è che tutto comincia dalla consapevolezza. Cioè, la consapevolezza è il fondamento di ogni essere. In tale concezione, la consapevolezza impone la “causalità discendente”. In altre parole, il nostro libero arbitrio è reale. Quando agiamo nel mondo, stiamo davvero agendo con potere causale. Questa concezione non nega che anche la materia abbia potere causale – ovvero che esista un potere causale dalle particelle elementari diretto verso l’alto, cioè una causalità ascendente – ma aggiunge che esiste una causalità discendente. Essa si rivela nella nostra creatività, nelle scelte del nostro libero arbitrio o quando prendiamo decisioni morali. In tali occasioni, siamo di fatto testimoni della causalità discensionale operata dalla consapevolezza. Craig Hamilton: Nel suo libro, lei fa riferimento a questo nuovo paradigma come all’«idealismo monista». Inoltre, suggerisce che la scienza sembra star fornendo la dimostrazione di ciò che i mistici hanno sempre detto nel corso della storia. Ovvero, lei sostiene che le attuali scoperte della scienza sembrano parallele all’essenza degli eterni insegnamenti spirituali. Amit Goswami: Esse sono l’insegnamento spirituale; non sono semplicemente parallele. L’idea che la consapevolezza è il fondamento dell’essere è la base di tutte le tradizioni spirituali, così come dell’idealismo monista, anche se gli ho dato un nome un po’ diverso. La ragione della scelta di questo nome è che, in occidente, esiste una filosofia chiamata “idealismo”, opposta a quella del “realismo materiale”, secondo la quale solo la materia è reale. L’idealismo afferma: «No, la consapevolezza è l’unica realtà». Ma in occidente quel genere di idealismo di solito ha significato qualcosa che era, in realtà, un dualismo: ovvero, la consapevolezza e la materia sono separate. Quindi, con l’espressione “idealismo monista” ho voluto rendere chiaro che non intendo la forma dualistica dell’idealismo occidentale, bensì un idealismo monista, che in occidente è esistito, ma solo nelle tradizioni spirituali esoteriche. Al contrario, in oriente questa è la corrente principale della filosofia. Nel buddismo, nell’induismo (dove viene chiamata vedanta) o nel taoismo, questa è la filosofia di tutti. Ma in occidente questa è una tradizione molto esoterica, conosciuta e condivisa solo da filosofi molto avveduti, che hanno investigato davvero a fondo la natura della realtà. Craig Hamilton: Sta dicendo che la scienza moderna, da un punto di vista completamente diverso – senza presumere nulla sull’esistenza di una dimensione spirituale della vita – è “passata dal retro”, per così dire, e ora si trova d’accordo con questa concezione, grazie alle sue scoperte? Amit Goswami: Giusto. Ma non è stato qualcosa di totalmente inaspettato. Sin dai suoi inizi, la fisica quantica – che vide la luce nell’anno 1900 e si sviluppò pienamente nel 1925, con la scoperta delle equazioni della meccanica quantica – ci ha fatto capire che la visione del mondo sarebbe potuta cambiare. I fisici devoti al materialismo si sono divertiti a paragonare la visione del mondo classica a quella quantica. Naturalmente, non si spingevano al punto di abbandonare l’idea secondo cui esiste solo la causalità ascensionale e la materia è sopra ogni cosa, ma resta il fatto che hanno scorto nella fisica quantica il potenziale per un grande mutamento di paradigma. Poi ciò che avvenne fu che, a partire dal 1982, sono cominciati ad arrivare i risultati dagli esperimenti di laboratorio. Quello fu l’anno in cui, in Francia, Alain Aspect e i suoi collaboratori condussero il fondamentale esperimento che dimostrò definitivamente la verità delle nozioni spirituali, in particolare quella della trascendenza. Devo specificare di cosa trattava l’esperimento di Aspect? Craig Hamilton: Sì, per favore. Amit Goswami: Per dare un po’ il quadro della situazione, bisogna dire che da molti anni la fisica quantica stava dando indicazioni sull’esistenza di altri livelli di realtà, oltre a quello materiale. Tutto cominciò quando si ipotizzò che gli oggetti quantici – gli oggetti nella fisica quantica – fossero onde potenziali. Ebbene, all’inizio la gente pensò: «Oh, sono come onde normali». Ma molto presto si scoprì che no, non sono onde nello spazio e nel tempo. Non è assolutamente possibile definirle onde nello spazio e nel tempo. Hanno proprietà che non combaciano con quelle delle onde comuni. Quindi, si cominciò a riconoscerle come onde in potenza, onde potenziali, e il potenziale venne riconosciuto come trascendente, in qualche modo oltre la materia. Ma il fatto che esiste un potenziale trascendente non fu molto chiaro per diverso tempo. Poi, l’esperimento di Aspect dimostrò che non si tratta solo di teoria, esiste davvero un potenziale trascendente; gli oggetti hanno davvero delle connessioni al di là dello spazio e del tempo. Fuori dallo spazio e dal tempo! Ciò che avviene in questo esperimento è che un atomo emette due quanti di luce, chiamati fotoni, in direzioni opposte. In qualche modo questi fotoni influenzano l’uno il comportamento dell’altro, a distanza, senza scambiarsi alcun segnale attraverso la spazio. Si noti: si influenzano reciprocamente senza scambiarsi segnali nello spazio. Ebbene, molto tempo fa Einstein ha dimostrato che due oggetti non possono mai influenzarsi istantaneamente nello spazio e nel tempo, perché ogni cosa deve viaggiare con un limite massimo di velocità, e tale limite è la velocità della luce. Quindi, qualsiasi influsso deve viaggiare, se viaggia attraverso lo spazio, impiegando un tempo finito. Questa viene chiamata l’idea della “località”. Si ritiene che ogni segnale sia locale, nel senso che deve impiegare un tempo finito per viaggiare attraverso lo spazio. Ciononostante, i fotoni di Aspect – i fotoni emessi dall’atomo nell’esperimento di Aspect – si influenzano reciprocamente, a distanza, senza scambiarsi segnali, perché lo stanno facendo istantaneamente; ovvero, lo stanno facendo a una velocità superiore a quella della luce. Dunque, ne consegue che l’influsso non ha potuto viaggiare attraverso lo spazio. Piuttosto, esso deve appartenere a una sfera della realtà che dobbiamo riconoscere come la sfera trascendente della realtà.Craig Hamilton: Affascinante. La maggior parte dei fisici è d’accordo con questa interpretazione dell’esperimento? Amit Goswami: Beh, i fisici devono essere d’accordo con questa interpretazione dell’esperimento. Naturalmente, molte volte essi assumono il seguente punto di vista, dicendo: «Sì, certo, gli esperimenti. Ma questa relazione tra le particelle in realtà non è importante. Non dobbiamo considerare le conseguenze di questa sfera trascendente… Se mai può essere interpretata in questo modo». In altre parole, cercano di minimizzare l’impatto di ciò, aggrappandosi ancora all’idea che la materia viene sopra ogni altra cosa. Me dentro di sé sanno come stanno le cose, in quanto è ormai dimostrato. Si racconta che nel 1984 o nel 1985, al raduno dell’American Physical Society (cui ero presente) si udì un fisico dire a un collega che, dopo l’esperimento di Aspect, chiunque non avesse creduto che nel mondo vi fosse qualcosa di davvero strano, avrebbe dovuto avere la testa dura come un sasso. Craig Hamilton: Quindi, lei sta dicendo che, dal suo punto di vista (condiviso da molti altri), è in qualche modo ovvio che bisogna introdurre l’idea dl una dimensione trascendente per dare una spiegazione convincente a tutto ciò. Amit Goswami: Sì, lo è. Henry Stapp, fisico dell’Università della California a Berkeley, lo dice esplicitamente in un suo saggio del 1977: le cose all’esterno dello spazio e del tempo influenzano quelle al loro interno. È semplicemente fuori questione che questo avvenga nel regno della fisica quantica, dove si ha a che fare con entità quantiche. Naturalmente, il punto cruciale, la cosa sorprendente è che abbiamo sempre a che fare con oggetti quantici, perché la fisica quantica è la fisica di tutti gli oggetti. Che sia submicroscopica o macroscopica, la fisica quantica è l’unica che abbiamo. Anche se è più evidente nei fotoni, negli elettroni, negli oggetti submicroscopici, crediamo che tutta la realtà, la realtà manifesta, la materia, sia governata dalle stesse leggi. E se è così, questo esperimento ci sta dicendo che dovremmo cambiare la nostra visione del mondo, perché anche noi siamo oggetti quantici. Craig Hamilton: Queste sono scoperte affascinanti, che hanno ispirato molte persone. Diversi libri hanno già cercato di stabilire un legame tra la fisica e il misticismo. Il Tao della fisica di Fritjof Capra e La danza dei maestri wu li di Gary Zukav hanno raggiunto moltissime persone. Pure, lei racconta nel suo libro di aver avuto la sensazione che qualcosa non fosse ancora stato esplorato, e che quel qualcosa rappresenta il suo contributo originale a tutto ciò. Può spiegare quali sono le differenze tra quello che lei sta facendo adesso e ciò che in quest’area era già stato fatto? Amit Goswami: Sono contento che lei mi abbia posto questa domanda. È una cosa che va chiarita, e cercherò di essere il più esauriente possibile. I primi lavori, come Il Tao della fisica, sono stati molto importanti per la storia della scienza. Tuttavia essi, anziché favorire la dimensione spirituale degli esseri umani, si reggevano tutti, fondamentalmente, sulla visione materialista del mondo. In altre parole, non sfidavano il punto di vista materialista secondo cui ogni cosa è composta di materia. Tale concezione non è mai stata posta in discussione da nessuno di questi primi libri. In realtà, il mio libro è stato il primo che l’ha sfidata apertamente, restando però sempre fondato su una rigorosa spiegazione in termini scientifici. In altre parole, l’idea che la consapevolezza sia il fondamento dell’essere è esistita, naturalmente, nella psicologia, per esempio nella psicologia transpersonale. Ma al di fuori di quest’ultima, nessuna tradizione scientifica e nessuno scienziato l’hanno percepita con altrettanta chiarezza. La mia fortuna è stata riconoscerla all’interno della fisica quantica, ovvero scoprire che tutti i paradossi di quest’ultima potevano essere risolti accettando la consapevolezza come il fondamento dell’essere. Questo è stato il mio contributo originale. Ovviamente, ciò ha la capacità di mutare l’intero paradigma, perché ora possiamo davvero integrare la scienza con la spiritualità. In altre parole, con Capra e Zukav – anche se i loro libri sono ottimi – non avviene un mutamento di paradigma, non c’è un’autentica riconciliazione tra la scienza e la spiritualità, perché essi sono rimasti fedeli a un paradigma fondamentalmente materialista. Infatti, se in ultima analisi ogni cosa è materiale, ogni potere causale deve provenire dalla materia. La consapevolezza e la spiritualità vengono riconosciute, ma solo come epifenomeni causali o secondari. E una consapevolezza epifenomenica non va molto bene. Voglio dire, essa non sta facendo niente. Dunque, anche se questi libri riconoscono la nostra spiritualità, quest’ultima alla fin fine proviene da una sorta di interazione materiale. Però questa non è la spiritualità di cui ha parlato Gesù; non è la spiritualità che colmava di estasi i mistici orientali; non è la spiritualità che un mistico riconosce quando dice: «Adesso so cos’è la realtà, e questa conoscenza elimina per sempre tutta l’infelicità. Questo è l’infinito, questa è la gioia, questa è la consapevolezza». Questo genere di affermazione esuberante fatta dai mistici non sarebbe possibile sulla base di una consapevolezza epifenomenica. È ammissibile solo quando si riconosce il fondamento dell’essere stesso, quando si riconosce direttamente che l’Uno è il Tutto. Ebbene, un essere umano epifenomenico non avrebbe alcuna conoscenza di questo tipo. Non avrebbe senso sapere di essere il Tutto. Dunque, questo è ciò che sto sostenendo. Finché la scienza continua a basarsi sul punto di vista materialista, per quanto cerchi di spiegare le esperienze spirituali in termini di chimica del cervello, di fenomeni paralleli o altro ancora, non stai davvero rinunciando al vecchio paradigma. Stai abbandonando il vecchio paradigma e riconciliandoti pienamente con la spiritualità solo quando basi la scienza sull’essenziale nozione spirituale che la consapevolezza è il fondamento di tutto l’essere. Questo è ciò che ho fatto nel mio libro, ma è solo l’inizio. Esistono già altri libri che stanno riconoscendo questo fatto. Craig Hamilton: Quindi esistono persone che stanno corroborando la sua idea? Amit Goswami: Esistono persone che stanno uscendo allo scoperto riconoscendo la stessa cosa, cioè che questo punto di vista è il modo corretto di spiegare la fisica quantica e anche di sviluppare la scienza in futuro. In altre parole, la scienza attuale non solo ha portato a dei paradossi quantici, ma si è anche rivelata inadeguata a spiegare fenomeni paradossali e anomali come la parapsicologia, il paranormale e – perfino – la creatività. Anche problemi tradizionali come la percezione o l’evoluzione biologica contengono diversi punti oscuri che queste teorie materialiste non spiegano. Per darle un esempio, nella biologia esiste quella che viene chiamata la teoria degli equilibri punteggiati. Ciò vuol dire che l’evoluzione non è solo lenta, come pensava Darwin, ma che esistono delle epoche in cui essa è veloce, definite “segni di punteggiatura”. Tuttavia, la biologia tradizionale non ha alcuna spiegazione per ciò. Se invece fondiamo la scienza sulla base della consapevolezza, sul primato della consapevolezza, possiamo scorgere in questo fenomeno la creatività, l’autentica creatività della consapevolezza. In altre parole, possiamo vedere davvero che la consapevolezza sta operando creativamente perfino nella biologia, nell’evoluzione delle specie. E quindi, ora possiamo riempire con idee essenzialmente spirituali (tipo la consapevolezza come creatrice del mondo) questi spazi vuoti che la biologia convenzionale non riesce a colmare. Craig Hamilton: Questo riporta alla mente il sottotitolo del suo libro, Come la consapevolezza crea il mondo materiale. Si tratta, ovviamente, di un’idea piuttosto radicale. Potrebbe spiegare un po’ più concretamente in che modo ciò avviene davvero, secondo lei? Amit Goswami: In realtà, è la cosa più facile da spiegare, perché nella fisica quantica, come ho detto prima, gli oggetti non sono considerati entità definite, secondo la nostra abitudine. Newton ci ha insegnato che gli oggetti sono entità definite, visibili in ogni istante e in movimento lungo traiettorie definite. La fisica quantica non dipinge affatto gli oggetti in questo modo. Nella fisica quantica gli oggetti sono visti come potenzialità, onde di possibilità. Giusto? Quindi sorge la domanda: cosa trasforma la possibilità in attualità? Infatti, quando vediamo, vediamo solo eventi in atto. Essi cominciano con noi. Quando vedi una sedia, vedi una sedia in atto, non in potenza. Craig Hamilton: Giusto… Almeno lo spero. Amit Goswami: Tutti lo speriamo. Ebbene, questo si chiama il “paradosso della misurazione quantica”. È un paradosso, perché chi siamo noi per operare questa trasformazione? Dopo tutto, nel paradigma materialista, non abbiamo alcun potere causale. Non siamo altro che il cervello, composto di atomi e particelle elementari. Quindi, come fa un cervello composto di atomi e particelle elementari a tramutare un’onda potenziale, se lui stesso è un’onda potenziale? Lui stesso è composto delle onde potenziali degli atomi e delle particelle elementari, quindi non può trasformare la propria onda potenziale in qualcosa di attuale. Questo viene definito un paradosso. Ora, nella nuova concezione, la consapevolezza è il fondamento dell’essere. Quindi, chi converte ciò che è potenziale in attuale? La consapevolezza, perché essa non ubbidisce alla fisica quantica. La consapevolezza non è fatta di materia; è trascendente. Vede il mutamento di paradigma, qui? Il modo in cui è possibile affermare che la consapevolezza crea il mondo materiale? Il mondo materiale della fisica quantica è solo una possibilità. È la consapevolezza, grazie alla conversione della possibilità in attualità, a creare ciò che vediamo manifesto. In altre parole, la consapevolezza crea il mondo manifesto. Craig Hamilton: A essere sinceri, la prima volta che ho letto il sottotitolo del suo libro pensavo che si trattasse di una metafora. Ma dopo aver letto il libro, e discutendone ora, mi sto convincendo che lei lo intende in modo molto più letterale di quanto credevo. Un passaggio del suo libro che mi ha lasciato letteralmente interdetto è dove afferma che, secondo la sua interpretazione, l’intero universo fisico è esistito sotto forma di infinite potenzialità in evoluzione fino a quando, a un certo punto, è emersa la possibilità di un essere senziente conscio; in quel momento, istantaneamente, tutto l’universo conosciuto è venuto alla luce, inclusi i quindici miliardi di anni che hanno portato a tale istante. Vuole dire davvero questo? Amit Goswami: È quello che intendo, alla lettera. Questo è ciò che la fisica quantica richiede. In realtà, nella fisica quantica questa viene chiamata “scelta ritardata”. E io ho aggiunto a tale concetto quello dell’«autoreferenza». Di fatto, il concetto della scelta ritardata è molto antico. Si deve a un fisico famosissimo di nome John Wheeler. Ma secondo me Wheeler non considerò correttamente l’insieme della questione. Lasciò da parte l’autoreferenza. Sorge sempre la domanda: «Si pensa che l’universo esista da quindici miliardi di anni, ma se è necessaria la consapevolezza per convertire la possibilità in attualità, come è possibile che l’universo sia esistito tanto a lungo?». Infatti, in quella primitiva sfera incandescente che si suppone abbia creato l’universo – il big bang – non esistevano né la consapevolezza né gli esseri senzienti, biologici, a base di carbonio. Ma questo nuovo modo di considerare le cose afferma che l’universo è rimasto in potenza fino alla misurazione quantica autorefenziale. Questo è il nuovo concetto. Lo sguardo di un osservatore è essenziale per manifestare la possibilità in attualità, e quindi solo quando un osservatore guarda, ogni cosa diventa manifesta, incluso il tempo. Per cui l’intero passato, da questo punto di vista, diventa manifesto nell’istante stesso in cui il primo essere senziente guarda. Si scopre che questa idea, in modo molto ingegnoso e sottile, è esistita in astrologia e in cosmologia sotto forma del principio definito “antropico”. Cioè, tra gli astronomi (ma anche tra i cosmologi) si è fatta strada l’idea che l’universo abbia un fine. Esso sembra così orientato verso un fine, esistono talmente tante coincidenze, che sembra molto probabile che stia facendo qualcosa intenzionalmente, cioè si stia sviluppando in modo tale da far nascere, a un certo punto, un essere senziente.Craig Hamilton: Dunque, lei ha la sensazione che esista una certa intenzionalità nel modo in cui l’universo si sta evolvendo; cioè che, in un certo senso, arriva a compimento in noi, esseri umani? Amit Goswami: Beh, gli esseri umani possono non esserne il fine, ma certamente ne sono il primo risultato, perché qui è presente la possibilità della creatività manifesta, la creatività nell’essere senziente stesso. Gli animali sono certamente senzienti, ma non creativi nel senso in cui lo siamo noi. Quindi, gli esseri umani in questo momento sembrano certamente un’epitome, anche se potrebbe non trattarsi dell’epitome finale. Penso che abbiamo una lunga strada da fare e che molta evoluzione debba ancora accadere. Craig Hamilton: Nel suo libro si spinge fino a suggerire che il cosmo sia stato creato per il nostro bene. Amit Goswami: Assolutamente. Ma ciò è riferito agli esseri senzienti, al bene di tutti gli esseri senzienti. L’universo siamo noi: questo è chiarissimo. L’universo è autoconsapevole, ma lo è attraverso di noi. Siamo il significato dell’universo. Non siamo il suo centro geografico – Copernico aveva ragione su questo – ma siamo il centro di significato dell’universo. Craig Hamilton: Attraverso di noi l’universo trova il suo significato? Amit Goswami: Attraverso gli esseri senzienti. E non occorre essere antropocentrici, nel senso di limitarsi agli abitanti del pianeta Terra. Possono esistere esseri senzienti su altri pianeti, in altre stelle – in realtà, sono convinto che sia così – e ciò è in totale accordo con questa teoria. Craig Hamilton: Questo atteggiamento “umanocentrico” – o centrato sugli esseri senzienti – sembra piuttosto radicale in un’epoca in cui gran parte del moderno pensiero progressista (che comprende discipline come l’ecologia, il femminismo e la teoria dei sistemi) si sta volgendo nella direzione opposta. Tale direzione punta più verso l’interconnessione o l’interrelazione, in cui il significato di ogni parte del tutto – inclusa una specie, come quella umana – viene ridimensionato. Il punto di vista che lei mi sta esponendo sembra richiamarsi a una concezione più tradizionale, quasi biblica. Cosa risponderebbe ai fautori del diffuso paradigma “non gerarchico”? Amit Goswami: È la differenza tra la filosofia perenne di cui stiamo parlando, l’idealismo monista, e ciò che può definirsi una sorta di panteismo. Cioè, queste concezioni – che definisco “ecologiche” e che Ken Wilber chiama allo stesso modo – di fatto denigrano Dio immaginandolo limitato alla realtà immanente. A prima vista sembra una bella cosa, perché tutto diventa divino: le rocce, gli alberi, ogni ente fino agli esseri umani. Ogni cosa è uguale ed è la divinità. Sembra bello, ma certamente non corrisponde a ciò che gli insegnanti spirituali conoscevano. Nella Bhagavad Gita, Krishna dice ad Arjuna: «Tutte queste cose sono in me, ma io non sono in esse». Cosa vuol dire? Questo: «Io non sono esclusivamente in esse». Quindi, in altre parole, nella realtà manifesta esiste l’evoluzione. L’evoluzione accade. Ciò vuol dire che l’ameba è, ovviamente, una manifestazione della consapevolezza, e altrettanto l’essere umano. Ma non si trovano allo stesso livello. Evolutivamente, sì, siamo davanti all’ameba. E i fautori di queste teorie “ecologiche” non se ne rendono conto. Non comprendono correttamente l’evoluzione, perché stanno ignorando la dimensione trascendente, l’intenzionalità dell’universo, il gioco creativo. Ken Wilber spiega benissimo tutto ciò nel suo libro Sex, Ecology, Spirituality. Craig Hamilton: Quindi, lei direbbe che essi scorgono una parte del quadro, ma non questo altro aspetto che lei sta introducendo, e che quindi il loro punto di vista è molto… Amit Goswami: …È molto limitato. Ecco perché il panteismo è molto limitato. Quando gli occidentali cominciarono ad andare in India, pensarono che quel Paese fosse panteista, perché ha moltissimi dei. La filosofia indiana tende a vedere Dio nella natura, in molte cose – in certi casi, gli indiani adorano le rocce – quindi gli occidentali pensarono che l’India fosse panteista. Solo in seguito si accorsero che esiste una dimensione trascendente. In realtà, tale dimensione trascendente è sviluppata benissimo nella filosofia indiana, mentre in occidente resta celata in pochissimi sistemi esoterici, come lo gnosticismo, e in pochi grandi maestri, come Meister Eckhart. Negli insegnamenti di Gesù, è rinvenibile nel vangelo secondo Tommaso. Ma occorre scavare davvero in profondità per trovare questo filone in occidente. In India, nelle Upanishad, nel Vedanta e nella Bhagavad Gita è quanto mai esplicita. Ora, “panteismo” suona molto bene, ma non è tutto. È un buon modo di essere religiosi, di portare la spiritualità nella vita quotidiana, perché è giusto riconoscere che in ogni cosa esiste lo spirito. Ma se ci limitiamo a vedere la diversità, a scorgere il Dio in ogni cosa, senza vedere il Dio al di là degli oggetti particolari, non stiamo realizzando il nostro potenziale, il nostro sé. E dunque, in realtà, l’autorealizzazione richiede di vedere questo aspetto panteista della realtà, ma anche il suo lato trascendente. Craig Hamilton: Oltre a essere uno scienziato, lei è anche un praticante spirituale. Potrebbe dire qualcosa su ciò che l’ha spinta verso la spiritualità? Amit Goswami: Beh, ho paura che si tratti di un caso piuttosto comune, quasi classico. Il caso classico ideale, naturalmente, è quello del Buddha, che all’età di ventinove anni riconobbe che tutti i suoi piaceri di principe erano in realtà uno spreco di tempo, perché nel mondo esiste il dolore. Per me non fu altrettanto drastico, ma intorno all’età di trentasette anni il mondo cominciò a crollarmi addosso. Avevo perso la borsa di studio, venivo da un divorzio e mi sentivo molto solo. Inoltre, il piacere professionale che mi dava la scrittura di articoli scientifici smise di essere un piacere. Ricordo che una volta mi trovavo a una conferenza e andai in giro tutto il giorno a farmi conoscere e discutere con gli altri. Poi, la sera, quando tutti se n’erano andati, mi sentii molto solo. Mi accorsi di avere un bruciore allo stomaco, e avevo già finito un’intera boccetta di pasticche, ma il dolore non diminuiva. Scoprii la sofferenza; scoprii letteralmente la sofferenza. E fu tale scoperta che mi condusse alla spiritualità, perché non riuscivo a pensare a null’altro, sebbene avessi completamente abbandonato l’idea di Dio e fossi un fisico materialista da molto tempo. Di fatto, quando i miei bambini mi chiedevano: «Sei un ateo?», rispondevo qualcosa come: «Sì». E se domandavano: «Dio esiste?», dicevo: «No, non credo in Dio». Era abbastanza frequente che dicessi cose del genere. Ma in quel periodo, intorno ai trentasette anni, quel particolare mondo – in cui Dio non esisteva e il significato della vita era dato semplicemente dalla ricerca della gloria in una professione – non mi soddisfaceva né mi rendeva felice. In realtà, era pieno di sofferenza. Quindi, arrivai alla meditazione. Volevo vedere se esisteva un modo di trovare sollievo, se non addirittura la felicità. E alla fine, grazie alla meditazione, arrivò una grande gioia, ma ci volle del tempo. Devo anche menzionare che mi sposai e che la sfida dell’amore fu fondamentale. In altre parole, dopo essermi sposato per la seconda volta, scoprii prestissimo che l’amore è molto diverso da ciò che pensavo. Insieme a mia moglie scoprii il significato dell’amore, e questo contribuii molto anche alla mia spiritualità. Craig Hamilton: È interessante il fatto che, nonostante lei si sia rivolto alla spiritualità perché la scienza non appagava fino in fondo la sua ricerca della verità, sia rimasto sempre uno scienziato. Amit Goswami: È vero. È solo che cambiò il mio modo di essere uno scienziato. Ciò che mi successe, il motivo per cui mi disamorai dalla scienza, fu che ne avevo fatto un trip professionale. Avevo smarrito il modo ideale di essere uno scienziato, cioè avevo perso lo spirito della scoperta, la curiosità, la volontà di conoscere la verità. Poiché non stavo più cercando la verità attraverso la scienza, dovetti scoprire la meditazione, dove mi misi di nuovo alla ricerca della verità, della verità della realtà. Qual è la natura della realtà, dopo tutto? Vede, la prima tentazione fu il nichilismo: nulla esiste. Ero completamente disperato. Ma la meditazione mi rivelò molto presto che no, le cose non erano così disperate. Vissi un’esperienza: ebbi un bagliore in cui vidi che la realtà esisteva davvero. Non sapevo cosa fosse, ma qualcosa esisteva. Ciò mi permise di tornare alla scienza e vedere se ora riuscivo a fare quel mestiere con energie e direzioni nuove, alla ricerca della verità invece che della gloria professionale. Craig Hamilton: In che modo questo rinnovato interesse per la verità, questo centro spirituale della sua vita, ha modellato la sua pratica scientifica? Amit Goswami: Ciò che avvenne fu che le mie ricerche scientifiche non erano più volte alla pubblicazione di articoli. Non affrontavo più problemi che mi avrebbero consentito di pubblicare articoli e ricevere borse di studio. Al contrario, stavo affrontando le questioni davvero importanti. E le questioni più importanti di oggi sono molto paradossali e anomale. Non sto dicendo che gli scienziati tradizionali non affrontano questioni importanti; anche essi ne hanno. Ma una delle questioni che scoprii quasi subito e che intuii mi avrebbe portato al problema della realtà stessa, fu quella della misurazione quantica. Vede, il problema della misurazione quantica è tale che si dice che allontani per sempre la gente da qualsiasi traguardo professionale, perché è difficilissimo. È stato studiato per decenni, senza che si arrivasse a una soluzione. Ma io pensavo: «Non ho nulla da perdere e voglio cercare solo la verità. Perché non provarci?». La fisica quantica era qualcosa che conoscevo molto bene; l’avevo studiata per tutta la vita, quindi perché non affrontare il problema della misurazione quantica? Fu così che arrivai a formulare questa domanda: «Quale forza tramuta la possibilità in attualità?». E mi ci vollero tutti gli anni dal 1975 al 1985 perché arrivassi a capirlo, grazie a una catarsi spirituale. Craig Hamilton: Può descrivere tale catarsi? Amit Goswami: Sì, con piacere. È un ricordo molto vivido nella mia mente. Vede, l’opinione generale dell’epoca – rinvenibile in ogni sorta di libro, dal Tao della fisica a The Dancing Wu Li Masters, passando per Taking the Quantum Leap di Fred Alan Wolf e altre opere ancora – era che la consapevolezza doveva essere un fenomeno emergente del cervello. E nonostante il fatto che alcune di queste persone, a loro onore, stessero riconoscendo alla coscienza un potere causale, nessuna riusciva a spiegare in che modo ciò avveniva. Questo era il mistero, perché se la consapevolezza, dopo tutto, era un fenomeno emergente del cervello, qualsiasi potere causale deve in ultima analisi provenire dalle particelle materiali elementari. Questo era un rebus, per me e per tutti. E non riuscivo a trovare alcun modo per risolverlo. David Bohm aveva parlato di “variabili nascoste”, quindi mi trastullai con le sue idee di un ordine esplicito e di uno implicito, e cose del genere. Ma tutto ciò non mi soddisfaceva, perché nella teoria di Bohm, di nuovo, non esiste potere causale assegnato alla consapevolezza. È tutta una teoria realista. In altre parole, è una teoria nella quale ogni cosa può venire spiegata per mezzo di equazioni matematiche. Ovvero, nella realtà non esiste libertà di scelta. Allora mi impegnai nella ricerca con tutti i mezzi, perché ero convinto che la libertà di scelta esisteva. Poi, un giorno – e fu qui che avvenne la catarsi – io e mia moglie eravamo a Ventura, in California. Un amico mistico, Joel Moewood, arrivò da Los Angeles e andammo tutti ad ascoltare Krishnamurti. E Krishnamurti, naturalmente, è una persona impressionante, un mistico notevolissimo. Lo ascoltammo e tornammo a casa. Nel corso della cena, cominciai a fare una tiritera a Joel sulle mie ultime idee a proposito della teoria quantica della consapevolezza, e Joel mi lanciò una sfida. Disse: «È possibile spiegare la consapevolezza?». Cercai di trarmi d’impaccio con qualche contorcimento verbale, ma lui non mi ascoltò. Disse: «Ti stai mettendo dei paraocchi scientifici. Non comprendi che la consapevolezza è il fondamento di tutto l’essere». Non usò questa espressione particolare, ma disse qualcosa di simile a: «Non esiste altro che Dio». Dentro di me scattò qualcosa che non riesco a spiegare bene. Ciò che ebbi in quel momento fu un’intuizione fondamentale. La mia psiche fece un dietro front completo e compresi che la consapevolezza è il fondamento di tutto l’essere. Ricordo che quella notte rimasi in piedi a guardare il cielo; intuivo in modo mistico cosa fosse il mondo ed ero perfettamente convinto che questa era la realtà, e che era possibile fare lo scienziato. Vede, la nozione prevalente – anche tra persone come David Bohm – era: «Come puoi pensare di studiare la scienza senza assumere che esista la realtà, la materia e tutto questo? Come puoi essere uno scienziato se lasci che la consapevolezza faccia cose “arbitrarie”?». Però mi convinsi completamente – non c’è stato il minimo dubbio, da allora – che è possibile fare lo scienziato su queste basi. Non solo, è anche possibile risolvere i problemi della scienza odierna. E questo è ciò che sta venendo fuori. Naturalmente, quella notte non si risolsero tutti i problemi; essa fu solo l’inizio di un nuovo modo di affrontare la scienza. Craig Hamilton: Interessante. Dunque, quella notte, il suo approccio mutò completamente. E dopo di allora tutto fu diverso? Amit Goswami: Tutto fu diverso. Craig Hamilton: E quindi, quando si trattò di definire nei dettagli cosa significasse essere uno scienziato in questo contesto, ha scoperto che il suo pensiero scientifico era più profondo o che in qualche modo era stato trasformato da tale esperienza? Amit Goswami: Sì, esattamente. Quello che accade fu molto interessante. Prima, come ho detto, ero bloccato in questa domanda: «In che modo la consapevolezza può avere un potere causale?». Ma ora che riconoscevo che la consapevolezza era il fondamento dell’essere, in pochi mesi il problema, il paradosso della misurazione quantica scomparve. Scrissi il mio primo articolo, che venne pubblicato nel 1989, ma era solo un tentativo di chiarire le idee e definire i dettagli. Un’altra cosa che avvenne fu che la creatività, che in quella notte del 1985 riprese fiato, impiegò quasi altri tre anni prima che cominciasse a esprimersi completamente. Ma da allora ho avuto la fortuna di avere un’intuizione dietro l’altra, e molti problemi si sono risolti: quello della cognizione, della percezione, dell’evoluzione biologica, della guarigione del corpo-mente. Il mio ultimo libro si chiama Physics of the Soul. È una teoria della reincarnazione, elaborata fin nei dettagli. È stata un’avventura splendida e creativa. Craig Hamilton: Sembra evidente che l’interesse per la dimensione spirituale, nel suo caso, ha avuto un notevole effetto sulle sue qualità di scienziato. All’inverso, come direbbe che la scienza ha influenzato la sua evoluzione spirituale? Amit Goswami: Beh, ho cessato di considerarle due sfere separate. Quindi, questa identificazione, questa totalità, l’integrazione tra la dimensione spirituale e quella scientifica, è stata molto importante per me. I mistici spesso mettono in guardia la gente: «Attento, non dividere la tua vita in questo e quello». Per me è successo spontaneamente, perché ho scoperto un nuovo modo di fare lo scienziato quando ho scoperto lo spirito. Lo spirito era la base naturale del mio essere: quindi, da allora, qualunque cosa faccia, non separo più molto queste due sfere. Craig Hamilton: Ha parlato di nuove motivazioni nel suo lavoro di scienziato, ovvero di come ciò che sosteneva la sua attività a un certo punto cominciò a mutare. Quali sono le vere motivazioni della scienza? E in cosa si differenziano da quelle delle ricerca spirituale? In particolare, ci sono pensatori come E. F. Schumacher o Huston Smith, per esempio, secondo le quali sin dalla rivoluzione scientifica, quando le idee di Cartesio e Newton presero piede, l’approccio della scienza è sempre stato quello di cercare di dominare e controllare la natura o il mondo. Questi critici si chiedono se la scienza possa mai essere un veicolo idoneo a scoprire le verità più profonde, perché secondo loro, essa è radicata in un desiderio di conoscenza cha ha ragioni sbagliate. Lei, ovviamente, è immerso nel mondo scientifico: conosce molti scienziati, segue conferenze, è circondato da tutte queste cose e forse lotta dentro se stesso contro quelle ragioni. Potrebbe dirci ancora qualcosa sulla sua esperienza di tutto ciò? Amit Goswami: Sì, questa è un’ottima domanda; dobbiamo capirla molto profondamente. Il problema è che in questa ricerca, questa forma particolare della ricerca scientifica – inclusi i libri che abbiamo menzionato prima, Il Tao della fisica e The Dancing Wu Li Masters – anche quando la spiritualità viene riconosciuta all’interno della visione materialista del mondo, Dio è visto solo nell’aspetto immanente della divinità. Ciò vuol dire questo: hai detto che esiste solo una realtà, quella materiale. Affermando ciò, anche quando imbevi la materia di spiritualità, stai ignorando il livello trascendentale, perché hai sempre a che fare con un solo livello. Quindi, si sta ascoltando un lato solo della campana, ignorando l’altro. Ken Wilber spiega benissimo questo punto. Ciò che va fatto – ed è qui che sparisce lo stigma della scienza – è, naturalmente, includere l’altra metà nella scienza. Ebbene, penso che prima del mio lavoro le modalità di questa inclusione fossero piuttosto oscure. Anche se persone come Teilhard de Chardin, Aurobindo o Madame Blavatsky (la fondatrice del movimento teosofico) riconobbero che una tale scienza sarebbe potuta nascere, pochissimi riuscirono davvero a concepirla. Dunque, ciò che io ho fatto è fornire un aspetto concreto a tutte queste visioni dell’inizio del secolo scorso. E facendo questo, riconoscendo che la scienza può basarsi sul primato della consapevolezza, tale deficienza non esiste più. In altre parole, lo stigma secondo cui la scienza è solo separazione sparisce. La scienza materialista è una scienza separatista. Ma la nuova scienza afferma che la parte materiale del mondo esiste davvero, che anche il movimento separatorio è parte della realtà, ma non è la sola. Esiste la separazione ed esiste l’integrazione. Nel mio libro The Self-Aware Universe parlo del viaggio del protagonista nella storia della scienza. Racconto che quattrocento anni fa, con Galileo, Copernico, Newton e altri, abbiamo cominciato il viaggio separatista, che però è solo la prima parte del percorso del protagonista. Dopo le sue scoperte, egli torna indietro. È il ritorno del protagonista ciò che stiamo osservando ora, attraverso questo nuovo paradigma. articolo pubblicato su Innernet
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