I miei tre anni e mezzo tra i Figli del Sole
(Il resoconto dell'esperienza in Perù di Anna
Maria)
Figlie,
sorelle, madri della Madre, figlie della Figlia, della Sorella in Amore
rinnovate nell’atto dai quattro elementi della Natura Madre di ogni madre, ha
scosso e scuote la percettività di ciascun’anima anche la più insensibile
all’Amore del mondo e all’Amore verso se stessi.
Dopo ore di
volo, il comandante ci comunicò che stavamo per atterrato. Era notte, guardai
fuori dall’oblò, molte luci brillavano sulla distesa d’una metropoli. Erano
ventidue ore che volavo e fui felice d’essere finalmente arrivata. Ero
arrivata a Lima, la capitale del Perù. Mio marito ci aspettava impaziente
all'aeroporto. Mi attaccai la figlia di pochi mesi a tracollo, presi per mano il
più grande di due anni e mezzo e tra borse e zaini stravolta misi piedi
per la prima volta, quasi come Cristoforo Colombo nel Nuovo Mondo!
Nel
contenitore della memoria si ravviva la mia esperienza vissuta per tre anni e
mezzo in Perù. I ricordi sono come sprazzi di sole che rischiarano la via
attraverso il denso fogliame della giungla delle mie reminiscenze.
Lima la
horible come il titolo del libro di Sebastian Salazar Bondy, Lima la criolla,
Lima l’antica città coloniale, che sa odiare fino ad amare e, tanto diversa
dalle altre capitali latino – americane.
Fu fondata
nel 1535 da Francisco Pizarro, inizialmente con il nome di Ciudad de los Reies.
Fu sede del vicereame dal 1542 e capitale spagnola delle colonie americane.
Il barocco e
sfarzoso stile delle costruzioni delle chiese e degli antichi palazzi per
opera dei dominatori, sono carichi di ornamenti pesanti, quadri e sculture
oppressivi, sembrano l’ossessione degli spagnoli nel voler aggredire
sopraffacendo la cultura e la religione del popolo degli Incas.
E’
singolare e cinica questa Lima con il suo folclore, la sua musica vivace;
quella criolla della costa, lenta quella della Sierra di una tristezza
struggente. Agli angoli delle strade, cantori senza età e senza tempo,
vestiti con i tipici indumenti dei contadini indios, con rozzi strumenti fatti
di canne, suonano remote arie malinconiche, echi di memorie lontane che
rievocano ricordi di miti, di divinità giunte dal cielo, dei templi solari
dell’Inti, del tuono, dello splendore delle vesti del fulmine, delle cime
della montagna sacra, dell’energia dello Spirito, di sacrifici offerti agli
Dei degli uomini, della Sierra, dei picchi aguzzi e selvaggi che bucano il
tetto del cielo. Canti che riassumono l’umore di una cultura antica di un
popolo, che si culla con i propri canti soffrendo d’essere stato duramente
offeso e spogliato della propria dignità. Le danze polkitas, l’architettura
coloniale accanto ai grattacieli altissimi d’importazione made in U.S.A., il
linguaggio lento e cantato, i riti religiosi retaggio di vecchi culti
forzatamente fusi con quelli successivamente importati da missionari e gesuiti
un tempo, dalle multinazionali oggi, i chinos de l’esquina, (i cinesi con i
loro negozi d’alimentari all’angolo delle strade) la giovane letteratura
cruda e tagliente, l’arte, i murales, la difficile politica, la cucina dagli
odori forti, dai sapori selvaggi, el rocotto rellenos che brucia la bocca per
un giorno intero, il pisco o la chicha e Jiron de la Union sono vivi ancora
dentro di me e stampati a lettere indelebili.
Si dice che
il Perù è Lima e Lima è Jiron de la Union (la strada più elegante del
centro) pieno di luci colorate e di negozi un po’ retrò. Là si trova anche
il palazzo del luogotenenti di Pizarro, uno dei più antichi del continente
dopo la scoperta di Colombo.
Città
particolare, combinazione di vecchio e di nuovo, contrasti che stonano e si
combinano, stridono, si amalgamano convivendo insieme. La varietà degli
opposti esistenti è la prova di un’abitudine di un vissuto a doppio fondo.
Una per esaltare le grandi fortune dei discendenti dei conquistadores rapaci,
ristrette ad un numero di un centinaio di potentissime famiglie, e l’altra,
la vasta maggioranza, che mette a nudo abissali miserie.
Per i
superstiti del genocidio spagnolo, l’esistenza non è mutata molto, il
potere economico-politico è nelle mani dei discendenti di coloro che in
passato li hanno vinti.
Oggi poiché
non s’identificano con il popolo indio, contribuiscono a sfruttarlo ed
impoverirlo maggiormente.
Eppure
nonostante gli sconvolgimenti sociali, a dispetto di qualunque tipo di
coercizione, la cultura andina sussiste e possiede una sua peculiarità. E’
vero che tutto è mutato nel tempo, ma è anche vero, che la conversione
forzata al Cristianesimo, pena la vita, gli usi ed i costumi coercitivi
introdotti dagli spagnoli, non sono riusciti a trasformare la spiritualità
innata ed il modo di essere degli indios, in contadini spagnoli.
I nativi,
esclusi da ogni potere economico e politico, dalla scolarizzazione, dalla
tecnologia avanzata, continuano a vivere come un tempo lontano. Sebbene vi sia
una lenta evoluzione come in qualsiasi altra parte del mondo, per loro avviene
in maniera assolutamente originale. Poco importa se l’immagine non sia
conforme alla realtà storica.
Passeggiano
attraverso tempo e spazio, riflettendo inconsciamente sulla loro spiritualità,
conservano e comprendono i valori morali più profondi ed in particolare
l’amore della famiglia. Non hanno il desiderio del possesso, le loro case
anche in tempi passati erano piccolissime, perché servivano per riposare, la
terra è un bene di tutti ed i frutti sono una ricchezza elargita dalla
natura, per cui i confini non hanno ragione di esistere. Fino all’ultimo
rispettano gli anziani, li amano, li accudiscono onorando la loro esperienza e
saggezza, tutti i bambini crescono come i figli di tutti con affetto e
solidarietà. Sperimentano gioia, tristezza, risate, dolore, fede e tanta
speranza, qualità unica e vera della specie umana, troppo spesso dimenticata.
Essi continuano a vivere nel cuore dei diseredati e con determinazione ed
ardore guidano, da veri guerrilleros, la loro rivolta antica, con mezzi
moderni, battendosi con coraggio per una condizione di vita più umana, come
predicò e cercò d’insegnare millenni fa il figlio dell’uomo e figlio di
Dio. L’incontro con queste anime nello stato della materia, è una
sovrapposizione di stati, uno sull’altro, uno dentro l’altro, stretti in
un abbraccio fittissimo e si dimentica che il mondo è fuori ad aspettarci. Il
passato abbraccia ogni angolo ed è nel cuore della gente da generazioni.
Quando da forestieri si giunge a Lima con la testa piena di futuro, non si
capisce perché, questa energia viene lentamente sostituita da un retaggio
coloniale spagnolo, che si respira dovunque ancora troppo vivo. Spiritualità
e sottomissione coloniale convivono annodati da un vincolo perverso.
Quando per
la prima volta percorsi in taxi l’Avenida Arequipa, provai una strana
sensazione di spazio a cui non ero abituata. Larga quattro corsie, lunga
dodici km., in mezzo fiancheggiava per tutto il percorso un giardino pieno di
fiori.
Nel vecchio
continente siamo abituati a spazi ristretti, a strade anguste e molto più
corte, circondate da reti fittissime di raccolte piazzette dai vetusti palazzi
di nobili casati vecchi di secoli, vicoli e vicoletti straziati da incubi e da
storie misteriose, di cui si avvertono malevoli tracce incise su ogni pietra.
I palazzi
modernissimi del centro, il traffico veloce, in cui gli automobilisti non
rispettano il rosso, indios dalle facce rassegnate e dal passo lento,
impassibili ai clacson, come addormentati ad ogni incrocio rischiano la vita,
l’odore acre del fumo dell’anticuchio de corason, (cuore cotto alla brace
su fornelli di fortuna), in periferia bambini dai volti sorridenti
completamente nudi si bagnano in pozze di acque stagnanti, donne dai tipici
cappelli sedute sui talloni vendono ai margini dei mercati cipolle o aglio,
piccoli gruppi di disperati con dignità elemosinano cibo, e l’umidità,
tutta l’umidità della terra condensata in quel pezzo di mondo. Queste ed
altre sono solo alcune caratteristiche più evidenti.
Un mondo
difficile, aspro nella sua durezza, che si finisce per amare, ma Lima non è
solo questo. Ancora oggi sento la nostalgia di quel mondo misterioso, sebbene
sia difficile accettarlo subito. La vita ha un ritmo magico per chi ci vive,
la calma indifferenza e l’indifferente serenità del popolo, sono la loro
virtù per sopravvivere. Il mio sguardo era puntato sul loro mondo dello
spirito. L’accettazione di grandi sofferenze mutano il dolore in qualità,
che nessuno potrà loro sottrarre. E’ il percorso di dure esistenze, che
dispiegano la loro storia di affanni in una grande resistenza umana.
E’ un
grande insegnamento, in cui si prende coscienza, che nell’uguaglianza
dell’umanità, vi è tanta ineguaglianza per natura e che pertanto va
accettata ed amata per quella che è, senza cercare di renderla per tutti
uguale. Tutti, anche il più povero, ha accesso alla Divinità, ma ciascuno vi
ha accesso in modo diverso. E’ infatti nella diversità, nella differenza
delle qualità, dei talenti e dei debiti spirituali di ciascuno di noi, la
grande risorsa per esistere nella polarità terrena. L’Universo Divino ha
molteplici cammini, che attraverso l’esistenza conducono all’Unità
Assoluta e a ciascuno di essi è riservata la trasformazione dell’uomo alle
Sfere Superiori.
Un velo
impenetrabile di spesse nuvole grigie avvolge Lima e nasconde i raggi del sole
per molti mesi dell’anno. Sembra che stia sempre per piovere, ma non piove
mai. Gli ignari stranieri giunti da poco, se si muniscono di ombrello o
impermiabile, vengono derisi dai locali. Anche a me è successo, ricordo che
risentita mi chiedevo perché ero indicata come l’oggetto di tante risatine.
Si racconta
che l’imperatore inka Atahualpa, quando Pizarro gli chiese dove fosse il
posto migliore per costruire sul mare la nuova città spagnola sul mare,
quello gli suggerì un luogo come località ideale per edificare la capitale,
ma che in realtà era il più inospitale di tutto il paese. La leggenda dice
che questa fu la rivincita dell’Inca verso quello straniero arrogante, di
cui non a torto non si fidava e dal quale subiva la prepotenza del dominatore.
Inizialmente
nel 1535, quando fu edificata la città, le venne dato il nome di Ciudad de
los Reies. In quelle zone non piove mai e non c’è quasi mai il sole, dovuto
alla confluenza di correnti fredde provenienti dall’Antartide e quelle calde
provenienti dal Golfo del Messico.
Per tale
fenomeno atmosferico, si forma una coltre di nuvole spessissima, che ricopre
totalmente la città, oltre a produrre un livello di umidità intollerabile.
Da gennaio a
dicembre, salvo un mese d’estate in cui il sole compare per un paio d’ore
al giorno, sembra di morire dal grigiore, ma poi anche a questo ci si abitua.
In compenso non fa caldo in estate, né freddo in inverno, la vegetazione è
ricca di verde e di enormi fiori colorati. Per la totale mancanza di pioggia,
la polvere e lo smog formano una spessa ed umidiccia patina grigia sui muri,
sui portoni, sui balconi, sui cornicioni, sugli angoli dei marciapiedi.
Gigantesche
pubblicità coprono quasi per intero i grattacieli. La contemporaneità è
accanto a tracce indelebili di preistoria. Infatti un immenso albero
pluricentenario con tanto di targa, dà sfoggio di sé nel mezzo della
residenziale ed elegante piazza di Miraflores a due passi da muri caoticamente
dipinti con figure geometriche dalle tinte aggressive. In ogni angolo di
strada vi è una chiesa, vi sono tante chiese dovunque. Forse sono state
edificate per chiedere un futuro tacito condono ai sopravvissuti del genocidio
di una civiltà, oppure solo luoghi di speranza per trovare la forza di
portare avanti pene, rinunce, privazioni tollerate da intere generazioni
dominate e trucidate, ma non sconfitte, perchè l’uomo non può essere
sconfitto. Torturato, trucidato si, ma sconfitto mai.
La città
sorge molto regolare su un altopiano che si affaccia sul mare. Le strade ampie
e perfettamente diritte s’incrociano ad angolo retto come l’ordito di una
tela. Le abitazioni residenziali e gli spiazzi prospicienti hanno ampi spazi
circondati di verde e tanti fiori dai colori intensi. Nel centro della city è
più evidente la parte coloniale spagnola. In un’ampia area sorge la
cattedrale, il palazzo del vicereame, quello del municipio ed altri edifici
pubblici. Essi hanno sfidato gli assalti del tempo e ancor più le scosse dei
terremoti, che spesso in passato hanno distrutto parte della città. In
periferia los barrios sudati e fetidi, popolati da capanne fatte di lamiera,
cartone e fango abitate dalla povertà dei meticci, da andini smarriti e
spaesati che cercano di sopravvivere e da smunti asiatici, senza acqua
corrente, né fognature, dove malattie e fetore regnano sovrani.
Tutti hanno
sul volto la stessa espressione di antica oscura infelicità, da essere
diventata un loro tratto somatico che li fa rassomigliare. L’atteggiamento è
rassegnato di chi da generazioni è stato sopraffatto da un potere insolente e
che per sopravvivere continua ad essere dominato da vecchie forze occulte. Le
fronti sono rugose, l’andatura è lenta e frenata, lo sguardo è assente e
rassegnato, non si sa quello che pensano, i gesti sono sfumati, pazienti,
incoerenti. Sono come antiche statue dai volti solenni, votati a nascondere
segreti profondi. Sembrano in stato di trance, eppure nel passato come nel
presente hanno condotto lotte violente e covato passioni. Tutti e principalmente
gli indios, sembrano esistere in un incubo ipnotico da cui non riescono a
risvegliarsi, affianco ad un’indicibile nostalgia per la loro intima
personalità, per la loro anima più vera da troppo tempo smarrita. Sembrano
avere un rimpianto incolmabile per la distruzione di qualcosa, di cui sanno che
esisteva, ma non ne serbano più memoria. In realtà tutto il Sud America non va
visitato da turisti distratti impegnati a riempirsi le tasche di souvenir, ma va
sentita come una condizione dello spirito.
Donne minute
con l’aria imbronciata, portano quasi sempre un bimbo sulle spalle, stazionano
nei pressi dei mercati e sedute sui talloni vendono manitas ( cioè quella
quantità che entra in una mano ) di aglio, fagiolini, cipolle o legumi. Sotto
vecchie bombette marroni con gli occhi socchiusi, con la mente rivolta ai loro
personali pensieri, in apparenza sono impassibili a tutto il resto che le
circonda.
In tutto quel
mondo c’è una parte antica ed un’altra modernissima in opposizione. Accanto
ad architetture barocche coloniali troneggiano gli altissimi grattacieli. Ampie
ville lussuose ed ultramoderne, costruite da noti architetti statunitensi, sono
la dimostrazione di fortune immense, circondate di verde e coloratissimi fiori a
San Isidro, Miraflores ed in altre zone residenziali. Alla particolare Barranco,
nell’avenida Pedro de’ Osma, vi sono numerose e lussuose ville, tutte di
proprietà dei de’ Osma, discendenti di un’antica famiglia spagnola che,
prima dell’indipendenza, ha coperto cariche di Vicerè incaricati dal Re di
Spagna.
Sono
originarie costruzioni in autentico stile coloniale. Al centro la più grande è
a tre ampi piani con un numero enorme di stanze, ove prima vivevano gli ultimi
eredi di quella potente dinastia, proprietari di molte centinaia di ettari di
terre, innumerevoli capi di bestiame, miniere di argento, rame, ecc., oggi è un
museo con pregevoli opere ed oggetti d’arte in stile coloniale, donato allo
Stato, quando la famiglia si è estinta.
Poco
distante la periferia maledetta, dai tetti di lamiera contorte, circondate da
rifiuti e discariche malsane. Una stonatura, ma a lungo andare sembrano
l’uno la compensazione dell’altro ed ogni cosa si muove sempre con moto
rallentato. I ritmi di vita appartengono al loro mondo.
- <<No
se preoccupe pués – mi sentivo dire almeno un paio di volte al giorno -
manana, manana pués.>> A lungo andare, quel modo di pensare, mi era
entrato dentro. Avevo imparato a lasciar correre ed avevo compreso che si
poteva vivere anche meglio senza ansie stressanti, senza fretta spasmodica.
Per me non è stato difficile abituarmi a quel modo di vivere, invece
durissimo è stato al ritorno ritrovarmi in una realtà in cui non mi
riconoscevo più. Quel mondo all’altro capo dalla Terra mi era più
congeniale, sentivo di conoscerlo dentro di me, mi era comprensibile ed avrei
voluto riappropriarmi di antiche conoscenze riposte nella mia memoria
assopita.
Gli spagnoli
dalla metà del ‘500 fino all’indipendenza, hanno alternato la persuasione
alla violenza, creando una frattura insanabile tra gli antichi costumi dei
nativi e la società coloniale. Mi sentivo sopraffare da una ribellione che
sentivo provenirmi dalle mie radici profonde e non sapevo darmi una giusta
motivazione.
Per le
continue sopraffazioni compreso le malattie importate dall’Europa, venivano
decimate intere comunità e recise le radici di una cultura che aveva raggiunto
un’evoluzione nell’arte orafa, nel vasellame artistico, nella medicina,
nella chirurgia.
Nel cercare di
annullare una civiltà, si era creata una frattura incolmabile tra l’antica
cultura e la società moderna. Oggi del loro passato spirituale, così
strettamente legato a remote conoscenze, ben poco si conosce poiché essi
difficilmente condividono con estranei i segreti dei loro antichi valori
spirituali. Si compiacciono a rincorrere i fantasmi dei progenitori, si
dichiarano i loro discendenti legittimi, ad essi si sentono stretti per legami
di sangue e, sebbene non se ne rendono conto, hanno fuso la loro antica cultura
con quella dei conquistatori nella religione e in altri aspetti dei costumi, per
cui spesso quelle preziose conoscenze solo apparentemente, sono andate perdute.
Nel
contrasto in cui vivono queste popolazioni, sono costrette ad aderire e
partecipare ad un modello di vita con culture tanto diverse, che non
appartenevano loro in passato, come nel presente. Per sopravvivere si sono
fatti spogliare prima dall’arrogante brama spagnola, oggi subiscono la
soggezione del grande fratello del nord continuando con lo stesso disagio e la
stessa povertà, che li costringe ad emigrare. Il più forte rancore che
tacitamente provano verso gli antichi e nuovi dominatori, non è tanto
l’aver sopportato una sottomissione, quanto di aver subito la conquista
delle loro anime ed essere stati il più delle volte spersonalizzati. Nessuna
dichiarazione d’indipendenza davanti al mondo intero, potrà mai porre
rimedio a tale offesa dell’anima. Gli spagnoli si sentivano un popolo di
gente civile, orgogliosamente cristiano. Essi portando in nome della religione
il messaggio di salvezza a quei popoli, li sterminarono o li ridussero in
schiavitù.
Dopo il
primo incontro con il Perù antico e coloniale attraverso le testimonianze
della costa, affrontai il percorso che da Lima conduce alla Sierra, per
raggiungere il Cusco.
La Sierra è
un mondo particolare. La sua stessa conformazione, una piramide naturale che
si eleva dal mare verso il cielo, un’isola emersa in una grandiosità
immensa, la rende unica. Le proporzioni in cui si evolve la natura in queste
regioni, sono così colossali, che solo contemplandole da una certa altezza a
grande distanza, si possono percepire in tutta la loro magnificenza. Poche
opere della natura riescono a dare un’impressione più grandiosa. Una
montagna si eleva su un ‘altra, il bianco nevoso brilla al sole al di sopra
delle nuvole e cinge le vette come un diadema di diamanti. Se si osservano
bene in esse vi è la polarità maschile e femminile, che svettano verso
l’infinito in un amore incondizionato. Non è solo un’emozione, è uno
stato d’essere e non proviene da una relazione con altri, proviene
dall’interno di se stessi.
La varietà
di ambienti e l’incredibile diversità di vita vegetale e animale ne fanno
un modello per il resto del mondo. I giorni e le notti sono di uguale durata
per tutto l’anno, così anche non vi sono variazioni climatiche stagionali.
E’ il cuore del mondo, come dicono loro. E’ la verità.
Tra
precipizi spaventosi, violenti torrenti, valichi mostruosi, creste che
s’innalzano oltre ogni meta, appollaiati s’intravedono paesi e villaggi
fra orti e terrazze coltivate ad un freddo nordico dei tropici. Dopo aver
superato altopiani, valichi e picchi della Cordigliera e dopo aver
attraversato città e centri incaici, percorsi dai conqistadores, dai
cacciatori di tesori, dagli incas in fuga, passando tra paesi pittoreschi,
scorci stupefacenti, burroni impressionanti, si arriva all’Ombelico del
Mondo: il Cusco.
.La leggenda
racconta che con l’aiuto di Manco Capac, sua sorella e sposa Mama Oello,
inviati dal Dio Sole, furono poste le fondamenta della città sacra, che
divenne poi la capitale del regno degli Inca a 3400 metri d’altitudine
distesa tra il verde.
E’
l’Impero dalle origini leggendarie, dove un gruppo di guerrieri, dopo aver
fondato la città, creò una dinastia capace di conquistare con rapidità un
territorio immenso.
Lassù, tra
le sue mura è racchiuso e nascosta la più vasta testimonianza di una potente
civiltà scomparsa.
Il nome
originale di quel vasto impero era Tahuantisuyu. Perù è solo un piccolo
fiume che sfocia nel Pacifico. Tale nome fu dato in seguito da Pizarro per
indicare il limite del territorio da lui governato, concessogli dal re di
Spagna.
Tahuantisuyu
era una vasta area dalle origini antichissime, in cui erano fiorite splendide
civiltà le cui radici risalgono al IV millennio a.C. Sulle coste tra l’Equador
e l’attuale Venezuela si risale ad una civiltà esistita intorno a
10.000-6.600 a.C.
Molte civiltà
si sono susseguite nella Sierra e sulla costa e tutte hanno raggiunto un
elevato grado culturale.
I primi
abitanti andini rivendicavano origini divine molto antiche. Gli incas si
affacciarono alla storia intorno al 1000 d.C. Conquistarono quel territorio
immenso popolato da oltre una decina di milioni di abitanti. Era un popolo di
guerrieri, che partendo dal Cusco in breve tempo riunì quel territorio
immenso. Infatti il loro merito è stato unificare le tante tribù in un solo
grande paese. Non esistevano tra il popolo disparità economico-sociali, non
vi erano né ricchi, né poveri. Vivevano con dignità ed avevano raggiunto un
perfetto sistema di giustizia sociale, i diritti giuridici ed umani erano
rispettati, come venivano rispettate le leggi, che erano poche, ma
severissime. Le leggi erano emanate dall’imperatore e poiché l’Inca aveva
mandato divino, possedeva natura divina, quindi violare le leggi significava
compiere sacrilegio.
Al
condannato veniva inflitta la pena, senza nessuna crudeltà, ma pochi erano i
criminali, perché la legge veniva scrupolosamente rispettata.
La terra era
coltivata dalla popolazione. Prima lavoravano le terre appartenenti al Dio
Sole, i cui proventi andavano a coprire le forti spese dei riti, delle feste
sacre, della religione, dei templi delle Vergini sacre e del clero, poi si
lavoravano le terre dei vecchi, dei malati, delle vedove e degli orfani, dei
soldati in servizio, insomma di tutta la comunità che era impedita ad
occuparsene. Poi potevano lavorare il proprio terreno, con l’obbligo per
tutti di aiutare con solidarietà il vicino in difficoltà. Infine si
lavoravano le terre dell’Inca con grande cerimoniale da parte della
popolazione al completo.
Un sistema
di migliaia di chilometri di strade larghe, da due a sedici metri, garantivano
le comunicazioni dal Venezuela all’Argentina con un’efficiente
organizzazione di staffette che coprivano a piedi grandi distanze. In punti
prestabiliti vi erano stazioni di sosta :i tambos, ma ci si poteva fermare
solo con il permesso dell’imperatore. Non conoscevano la ruota, né i numeri
arabi, ma erano maestri nel fare i conti attraverso un sistema di cordicelle
che permetteva loro di compiere conti complicatissimi. Nel continente non vi
erano cavalli, per cui si avvalevano come mezzo di trasporta solo del lama.
Per vivere
in un mondo carico di fascino, bisogna inerpicarsi nell’avventura ove si può
cogliere nel confronto con la natura, la durezza della fatica fisica. Un
paesaggio di straordinaria bellezza si presenta più in alto quando appare
Machu Picchu, ultima rocca forte sacra degli Incas, gloria dell’uomo andino
e non ha ancora dato al mondo la chiave dei suoi enigmi. Lo sguardo si muove
alla ricerca del particolare come un riferimento per ricostruire dalle origini
quel mondo incantato, i suoi colori di fuoco, le sue forme acute, le sue
grandezze ciclopiche, i suoi Templi inviolabili. Ma l’azione del Tempo, in
un silenzio rotto solo dalle furie dei venti, ha plasmato tutto in una
immensa, simbolica, sacra rappresentazione. Gli elementi sorti nei millenni
passati, risaltano oggi in una combinazione di colori sfumati, accesi al
calore di un Sole potente. Le forme in tante superfici irregolari, raccontano
la Storia passata di un Tempo antico tuttora vivo. La Storia non appartiene ad
un passato che sfuma nel tempo, ma ad un presente in continua trasformazione.
E’ un racconto che attraversa la coscienza e va direttamente all’anima
nella quiete affollata da suggestioni, sussurri, emozioni. E’ un’opera del
Mondo che porta al di là del Mondo nello spazio che va verso l’Universo. La
forma in cui si esprime in grossi massi di pietra squadrati, ricorda il limite
della materia, ormai sopita in un ricordo smarrito, che disturba quell’immensa
sensazione di beatitudine, ma è anche la spinta a nuove mete interiori, verso
nuove avventure dello spirito.
Si è
immersi in un mondo senza tempo della leggenda e del mito, si supera un
portale invisibile non accessibile a tutti, in ogni tempo della propria
esistenza e, a quell’altezza, in quella vibrazione, si riconosce
un’espansione di coscienza, già conosciuta.
Apprendere
una caratteristica singolare che distingueva quei popoli mi colpì molto. Due
erano i vizi che l’antica gente inka odiava di più: quello di rubare e
quello di mentire. Oggi la specialità del popolo dei meticci, (che sono oltre
un terzo della popolazione) anche nelle caratteristiche somatiche molto
diversi dagli andini, è rappresentata dai questi due vizi tanto aborriti da
chi li aveva preceduti in altri tempi. Chi in tempi remoti raramente se ne
rendeva colpevole, doveva espiare la colpa con la morte. La motivazione era,
che così il bugiardo non poteva più mentire, né il ladro aveva più
occasione di rubare. Oggi invece mentono solo per abitudine o per il gusto di
farlo specialmente verso gli stranieri.
Lo fanno per
una furberia criolla? E’ piuttosto un misto di sfacciataggine e cinismo per
divertirsi. A volte mentono senza neppure un vero motivo. Perfino in tribunale
e sotto giuramento, non si è certi se dicono la verità. La stranezza è che
compiono la mistificazione con espressione imperturbabile, senza preoccuparsi
se fanno bene o male. In realtà è un meccanismo di difesa il più
incredibile e fantastico. Per loro la più spudorata menzogna viene raccontata
con grande naturalezza nella vita quotidiana, nella politica, nell’amicizia
e perfino nell’amore. Il peruviano è un vero artista della menzogna, che
non ha il solo scopo di ingannare gli altri, quanto in primo luogo
d’ingannare se stesso. Lui crea una realtà fantastica nella quale si
immerge fino a perdere il confine con la realtà oggettiva. E’ una creazione
artistica, un sogno, un gioco dell’esistenza stessa, anche per le cose meno
importanti. Infatti se si chiede un’informazione ad un passante, lui mentirà
con una sfacciataggine incredibile. Nessuno dirà mai che non sa cosa
rispondere, anzi si sprofonderà in spiegazioni intricate, puro parto della
sua fantasia. Solo per rendersi utili, dimostrarsi disponibili, in un gioco
che li fa sentire muy vivi, estroversi, simpatici, rumorosi. Sono formalisti e
ciò comporta una certa gentilezza, espansività ed un’amabilità innata. In
modo più nascosto però, mettono gli estranei alla prova. Può accadere che
l’accettazione o un giudizio su certi aspetti del loro paese, dei loro usi,
o della loro cucina può aprire porte, che nessuno si sarebbe immaginato
prima, mentre commenti affrettati e poco lusinghieri sfuggiti per stanchezza,
o per il gusto della battuta senza importanza, possono per sempre pregiudicare
un’amicizia ed improvvisamente i rapporti s’interrompono. La reazione
diventa esagerata, ma non bisogna dimenticare il senso di antica inferiorità
nei confronti dell’Europa. Loro sono molto più gentili ed ospitali degli
europei, ma anche più acuti ed attenti.
Per metà
sono figli degli antichi figli del Sole con una forte espressione spirituale,
per l’altra metà hanno il sangue di coloro che hanno trucidato, violentato,
rubato perfino l’anima dei loro antenati e si portano dietro l’onta
d’essere i figli minori degli europei, che non li amavano affatto, anzi li
ritenevano "mezzo sangue".
Oggi fanno
parte a tutti gli effetti di una grande nazione e mescolati anche ad altri
popoli, che per necessità hanno emigrato nel passato, sono diventati molto più
furbi e più intelligenti. Sono fuori da ogni pregiudizio e discriminazione
razziale, perché inesistente, ma senza memoria dentro di loro, è rimasto una
sofferenza antica. Per loro natura sono allegri e sempre pronti a partecipare
a feste con musica criolla, canti, danze, tanta birra e tanto pisco.
In volo
sulla Cordigliera delle Ande ero verso Arequipa, seconda città del Perù, lo
spettacolo che mi appariva, era da togliere il fiato. L’immensità dello
spettacolo era un misto di eccitante attrazione e spaventoso terrore. Il
fascino di quei giganti dalle creste aguzze ed incontaminate era una delle
grandezze del Creato. Scenari fantastici, grattacieli di rocce primordiali,
precipizi, crepacci terribili, santuari di pietra, bianchi deserti di
ghiaccio, cascate nate dal cuore della selva, pendii, valichi, gole profonde
popolate dalle voci del vento mi apparivano tra le aspre pareti, testimoni di
un tempo senza tempo. Vive, aggressive, incantate erano meravigliose creature
dalle anime antiche e dai pensieri mai da altri posseduti. Altari sacri, dove
la memoria della natura custodisce lo spartito di una sinfonia stupenda in cui
i suoni della natura si fondono e si confondono con i suoni dei suoi silenzi.
Unico vivente dominatore tra quelle altezze: il condor. Lui vola al di sopra
delle nuvole ed è libero.
Dall’alto
abbracciando con lo sguardo tutto e attraversando quell’indescrivibile regno
di pace, provavo sensazioni misteriose e mi sentivo trascinare lontano, molto
più su. Quelle rocce gigantesche, aggressive, primitive, nebbiose erano
sospese tra cielo e terra su nuvole fatte di soffici veli trasparenti. Quella
visione non è altro che un grande atto d’amore, un grande dono di Dio fatto
ai suoi figli.
Il mio animo
non era ancora placato quando l’aereo atterrò ad Arequipa nel cuore delle
Ande. Una città tutta dipinta di bianco a 2500 metri di altitudine ai piedi
di tre vulcani addormentati, come gli stessi indios che l’abitavano e come
loro, risvegliandosi fanno del loro meglio per comunicare che sono vivi. Un
Sole accecante m’investì con tutta la sua divinità. Tutto era fermo,
troppo fermo e tutto intorno a me si muoveva al rallentatore. Anche i greggi
di lama e di vicugna, procedevano attraversando le strade con calma a passo
lento. La vegetazione arsa era dipinta di grigio ed aveva il colore dei sassi,
ma proprio quell’apparente immobilità vibrava vorticosamente sprigionando
energia viva.
Non basta
conoscere la storia di quella gente per comprenderli, bisogna avere familiarità
con le loro abitudini di esistenza e le loro condizioni di essere. La comunità
tribale e la solitudine fanno parte della loro esistenza. Per un indio la
solitudine nasconde fonti di vita come insetti commestibili, erbe salutari,
speranze a cominciare dalle nuvole di forme minacciose, per finire alle rocce
irte da superare su precipizi abissali. Chi vive sulle montagne è riservato
ed è difficile che apra le porte del proprio cuore a chiunque. Penetrare
nella mentalità e nelle consuetudini di un campesino andino, per un europeo
è quasi impossibile. Hanno un enorme senso religioso e sono inclini verso
entità che popolano i loro mondi invisibili ai quali rivolgono preghiere,
voti e sacrifici. L’antico stregone è ora sostituito dal curandero, che ha
appreso l’arte sciamanica da un maestro fin dalla più tenera età. Queste
sono le figure più misteriose ed intriganti delle comunità andine. La
risposta è che tra le enormi difficoltà umane, riesce ad elevarsi al disopra
dei confini dell’animale uomo. Le credenze popolari che convivono con le
credenze religiose antiche e quella ufficiale, un ruolo veramente singolare è
quello che spetta alla huaka.
Huaka è
un’espressione alquanto vaga e ricca di significati, indica luoghi di
venerazione, i monumenti, gli spiriti dell’aria e della terra. Gli indios
disponevano le huaca lungo assi ideali dal Cusco verso tutte le direzioni.
E’ impiegata per indicare un’energia spirituale al di fuori e al disopra
dell’esistenza ordinaria. Può materializzarsi o incarnarsi in oggetti o
esseri animati, come in una sorgente, in una roccia, in un sasso di forma
particolare, una coppia di gemelli o in una persona con facoltà particolari.
Si indicavano anche i luoghi che l’Inca aveva frequentato, i templi,
l’energia dello spirito che poteva materializzarsi ovunque. Lungo le strade
che costeggiano i pendii più pericolosi o in quelle considerate
spiritualmente significative, ove l’energia è considerevole, s’incontrano
anche ora, cumuli di pietre che chiamano apacheta. I passanti deponevano e
depongono un sasso o un qualunque oggetto che portavano con sé, si fermavano
a pregare chiedendo protezione. La città del Cusco è considerata huaka per
la sua sacralità. Per l’indio convertito al cristianesimo, Gesù Cristo era
una huaca cattolica .
Agli
spagnoli, però non piaceva questa credenza. Braccati dai preti cattolici e da
essi perseguitati, venivano privati da tutte le huaca in loro possesso.
Diventava una lotta per estirpare le credenze millenarie dei nativi, come
l’abolizione delle feste religiose, che venivano egualmente celebrate, ma in
luoghi segreti. A distruggere ogni oggetto di culto idolatrico furono
soprattutto i gesuiti. Le piume, i tessuti per le feste, le conchiglie come
strumenti musicali, perfino le culle venivano bruciati in grandi roghi
purificatori. Canti ed inni tradizionali erano proibiti, come anche le pietre
raffiguranti huaca protettivi. Per convertire gli indios al Cristianesimo,
dovevano distruggere il loro passato antico di millenni, ma non sempre ci
riuscivano, nonostante applicassero la pena di morte.
Anche da noi
vi sono luoghi energetici, ove sono sgorgate sorgenti benefiche e riteniamo
quell’acqua miracolosa e guaritrice di malanni. Preghiamo, vengono officiati
riti religiosi e, le apparizioni avvenute, fanno ritenere quello stesso luogo
sacro. Abbiamo santini e riteniamo che ci proteggano dalle sventure e dai
malanni. Invece di erigere cumuli di sassi, costruiamo nicchie con l’effige
di un santo o appendiamo al collo una medaglina sacra per la nostra fede. Per
gli indios di quel tempo sarebbero state le nostre huaca…
Sulle Ande
raccolsi un sasso, che tuttora conservo gelosamente, dalla forma di un grande
uovo nero, liscio, levigato dall’acqua. Quando lo stringo fra le mani dopo
pochi minuti diventa bollente e se lo metto su una parte del corpo dolorante,
dopo poco il dolore si attutisce…quello è la mia personale huaka.
Nelle grotti
naturali sulle Ande, esistono centinaia di sorgenti di acqua calda e fredda
con forti vibrazioni energetiche, che sono ritenute popolate da spiriti
benefici. Ogni andino possedeva e possiede una huaka personale, che
corrisponde al suo doppio, una specie di gemello, nel quale risiede lo spirito
protettore. Può essere un oggetto, una pianta, un animale oppure un sasso o
un cristallo con poteri ritenuti magici. Che sia vero o falso, non importa, è
ciò che si crede con fede che lo rende verità.
L’esistenza
degli indios della sierra è durissima e povera. Hanno degli schemi spirituali
che rispettano e sono prudenti perché si sentono esposti all’ira di potenze
invisibili della natura che li circonda. Prima di attraversare un fiume,
bevono un po’ di quell’acqua. Nel superare una vetta aspra e difficile, se
non c’è già una huaka, lanciano un sasso sull’orlo del sentiero per
chiedere protezione e rendere omaggio alla stessa cresta elevata. Vivono in
capanne fatte di paglia umida impastata col fango. Quasi ogni famiglia
possiede un lama che costituisce una grande fonte di ricchezza, per il latte
che produce, per la lana che viene tessuta e lavorata, per il trasporto di
pesi, per il calore che emana nelle lunghe notti fredde ed infine in
vecchiaia, per la carne del suo corpo. Spesso ho visto donne dalle larghe e
coloratissime gonne lunghe, dalle bombette sul capo, andare a passo sostenuto
su creste e altopiani con un bambino sulle spalle, filare con ambedue le mani,
accompagnate da un lama ed insieme salire a passo veloce su stretti ed impervi
viottoli.
In chiesa
nei giorni di festa accoccolati sul pavimento prima della messa singolarmente
nel centro di un cerchio formato da candeline ed incensi accesi, comunicano
con la Divinità, pregano e raccontano con parole semplici la loro vita e le
mille difficoltà quotidiane.
Le donne
hanno volti riarsi e labbra serrate da un silenzio atavico, gli uomini hanno
gli sguardi impenetrabili e senza tempo, i bambini hanno bellissimi occhi vivi
ed intelligenti, ma sono troppo seri per la loro età. Tutti sono intenti a
pregare con devozione Dio, che non è più quello degli antenati , né quello
imposto con la forza dai conquistatori, ma forse è la giusta fusione dei due.
Loro sanno che Dio è unico e non vi è differenza tra Wiracocha, il dio
creatore, che dall’oscurità portò gli uomini alla luce e il Dio della
Bibbia che creò la Luce e dettò le Leggi ai suoi figli mortali.
Essi hanno
compreso molto prima di noi, (mi riferisco ai popoli preincaici) che la fonte
della forza vitale, che anima ognuno per esistere, non è qualcosa da temere.
Con semplicità affrontano ed accettano che tutto si trasforma, non attraverso
complicati trattati filosofici, ma solo senza temere la vita in se stessa. La
paura nasce dall’incertezza, loro sanno quale è lo spirito e l’amore
della Terra. Vedono, sentono con semplici frequenze vibratorie e quando il
tempo è giusto ed appropriato tutto diventa visibile, come lo spirito di ogni
altra cosa che appartiene alla natura, con cui sono in equilibrio in modo
rispettoso. Sentono il respiro della Terra, la Madre di tutti e si servono dei
suoi doni per riportare equilibrio in se stessi. Senza problemi esistenziali
hanno imparato a fidarsi e nella sofferenza, che non li risparmia, a vivere la
trasformazione giorno dopo giorno fin dai tempi dalla creazione. Il Cielo, le
Stelle, i cambiamenti climatici, la Luna sono un tutt’uno con la loro stessa
vita. Anche nei momenti peggiori nessuno maledirà questa grande Madre, dirà
una preghiera seguita da Okalà(=voglia il cielo che…). Sanno chiedere la
protezione e raramente vengono traditi dagli dei del loro antico mondo. Sanno
che sono tornati e con loro uniti e senza dirlo, sanno anche di essere i Re
della Natura.
In
un’esplosione di colori vivaci in onore alla vita, le donne nei mercati
all’aperto sotto il sole dei tropici, sedute sui talloni vendono nastri
colorati, tovaglie, stoffe variopinte, tappeti tessuti a mano, camice di
cotone ricamate, corpini di lana decorati con abilità ed altri manufatti
artigianali, assieme a cavoli, erbe curative di vario genere, foglie di coca,
pannocchie di mais, patate dolci, fagioli ed altro. Dai cappelli di foggia e
colori diversi si riconoscono le regioni di provenienza. Tutto
disordinatamente è ammucchiato a terra su grandi teli variopinti. Una
attaccata all’altra si dispongono in un grande cerchio e formano così una
grande forza energetica, compreso neonati e bambini che giocano, fanno
capriole o dormono nella piazza principale davanti alla chiesa.
Sono
indifferenti di fronte alla morte come lo sono di fronte alla vita, perché
sono ambedue parte della vita stessa. Per loro la vita è fatta di stenti, è
breve e vale molto poco, ma la amano in maniera semplice e ringraziano per
quel poco che hanno. Mantengono un certo distacco e conservano la solitudine
nel silenzio come un bene prezioso. Non è la stessa solitudine dell’uomo
moderno, immerso nello stress degli affari del mondo artificiale, ma quella di
chi vive in un ambiente ostile, tra terra e cielo, tra pioggia e vento, tra
forze contrarie e sconosciute. Sono prigionieri dei miti precolombiani e dei
dogmi cattolici, misti ad altri miti preispanici, che raccontano della
creazione, di Wiracocha, di Inti (il Sole rigeneratore), di divinità venute
dal cielo su navi di fuoco, delle Vergini del Sole, di Noè e del diluvio
universale, di stirpi reali imparentati con gli dei e con i figli del Sole,
dei huaka, della stirpe di Davide, del Re Salomone, delle leggi di Mosè,
della Trinità, di Illapa, del peccato originale, della verginità della
Madre, di Mamacocha la madre del mare, dei Santi, di Mamaquilla la dea Luna
sorella del Sole, della resurrezione del Figlio, di Pachamama la Dea Madre,
degli apostoli, dello Spirito Santo… ed altro ancora.
Si sentono
confusi ed orfani, immersi nel loro silenzio carico di significati e di
sfumature, imprigionati in una muraglia d’impassibilità per pura difesa.
Sorvolando
il deserto peruviano, lungo la cresta si scorgono rare abitazioni dal colore
della polvere e dalle forme vaghe. Lo spettacolo diviene incredibile quando si
incomincia ad intravedere la selva e inaspettatamente si prova una forte
emozione ancora più grande. La foresta prima della Cordigliera, si presenta
in tutta la sua magnificenza, in un mostruoso, confuso groviglio di rami
fittissimi, di foglie verdi dalle tante gradazioni. La visione è
indescrivibile ed in ogni sua manifestazione in quella fitta boscaglia dove
non si vede il suolo, in cui si nascondono palpiti di vita, dei quali non si
sospetterebbe neppure l’esistenza. E’ come tornare all’infanzia, a certe
sensazioni magiche di racconti, di mondi abitati da streghe e da gnomi.
Dall’alto si distingue un fiume, dal colore di cobalto, ha la forma del
serpente sacro, che strisciando si snoda fra tutto quel verde accecante.
Villaggi dai tetti di paglia, sperduti in paesaggi che non hanno nulla in
comune con i nostri e dove il cielo ha il colore dello zaffiro trasparente e
che si fonde a quella natura senza tempo.
Più oltre
verso sud, Puno e le rive del lago Titicaca. L’unico lago salato più alto
del mondo, a quattromila metri d’altezza. Per l’altitudine non vi crescono
alberi, la vegetazione è povera ed è costituita da cespugli bassi e
sofferti. Gli abitanti vivono di pesca, la loro ricchezza è costituita dalle
canne – corrispondenti al papiro egiziano – con cui costruiscono leggere
imbarcazioni. I nativi per la maggior parte, sono gli ultimi discendenti della
misteriosa civiltà degli aymarà, precedente a quella quechua inkaica.
Pare che
avessero approfondite nozioni d’astronomia, matematica, fisica ed altre
conoscenze, presuntuosamente considerate patrimonio degli occidentali. La
lingua millenaria, da cronache del tempo, si è conservata integra come era e
non ha subito cambiamenti rilevanti, come accade a qualsiasi altra. Eminenti
studiosi hanno ipotizzato che l’origine possa essere datata intorno a 7000/
10.000 anni a.C. e che potesse essere la lingua primigenia dell’umanità.
A
testimonianza della sua antica grandezza, è ancora usata in alcune zone del
Perù nei pressi delle rovine di Tiahuanaco, a Puno, in alcuni villaggi nelle
Ande e in una parte della Bolivia.
Altre culture
hanno preceduto quella ultima degli inkas, infatti a più di 3000 mt. di altezza
sulla Cordigliera Blanca, si trova Chavin de Huantar, luogo che ha poi dato il
nome alla civiltà Chavin (850-200 a.C.).Sono rimasti le decorazioni dei templi,
quasi sempre costituite da figure antropomorfe dai caratteri felini dipinti
sulle colonne, sulle pareti, sugli architravi. Il culto di tale divinità era
legato alle osservazioni astronomiche dei sacerdoti. Infatti la testa del
giaguaro stilizzata de "l’idolo di Lanzòn" ,- posto nelle gallerie
sotterranee del Tempio,- è rivolto ad oriente, al sorgere del Sole. Altri
animali predatori, mostruosi esseri e scene crudeli di corpi straziati trovano
la massima espressione nella civiltà Chavin, per cui si pensa che alla divinità
fossero dedicati sacrifici umani. Conoscevano le tecniche della metallurgia,
della tessitura, della ceramica ed avevano inventato un complesso sistema
d’irrigazione per l’agricoltura. Questa cultura, a ragione è considerata la
cultura "madre" delle genti andine e la radice di tutte le altre
successive. Verso la fine dell’epoca Chavin e Paracas due altre grandi culture
si svilupparono a nord e a sud del Perù: quella dei Nasca (200 a.C.- 800 d.C.)
e quella dei Mochica ( 100 – 600 d.C.). Ambedue le popolazione vengono
considerate "Maestri artigiani" per la produzione della ceramica, dei
tessuti ricamati e per l’oreficeria. Hanno saputo creare un vasellame
finissimo, decorato con numerose figure fantastiche. Sebbene cacciatori di
teste, ci hanno anche lasciato un’opera grandiosa, uno degli enigmi più
affascinanti della storia dell’archeologia. Ampie linee geometriche e
simmetriche, visibili solo dall’alto, si snodano per un raggio di molti
chilometri sul terreno, disegnando forme che sembrano piante, arbusti, uccelli,
lucertole e scimmie stilizzati. Fin’ora sono state fatte molte ipotesi, ma
nessuna è stata riconosciuta valida.
La medicina
incaica, pur conservando concezioni per noi "magiche", fu uno dei
settori scientifici più rilevanti, in cui si riscontrano specialmente nella
chirurgia conoscenze avanzate per l’epoca. Le malattie, per loro nel
passato, come nel presente hanno origine spirituale, effetti di energie
malefiche di natura magica, oppure dovute a forze interiori dirette male verso
se stessi. Per curare le comuni malattie, la medicina incaica usava rimedi di
origine animale, vegetale e minerale. I guaritori percorrevano i villaggi
muniti di droghe e di erbe di loro esclusiva conoscenza. Per combattere le
infermità mentali, usavano anche pratiche di carattere magico-religioso. La
chirurgia era veramente sorprendente per l’epoca\, nonostante gli strumenti
adoperati. Amputazioni, trapanazioni del cranio, innesti e trapianti ossei,
erano operazioni frequenti e coronati da successo.
Com’è
possibile che un grande e potente impero di saggi, di politici esperti
nell’arte di governare, di sacerdoti colti, di guerrieri coraggiosi, di
astrologi sapienti, di guaritori dalle enormi conoscenze mediche e spirituali,
di raffinati artisti dalla conoscenza millenaria, di architetti, di provetti
costruttori possa essere stato distrutto in pochissimo tempo da un manipolo di
avventurieri spagnoli?
Armati di
corazza d’acciaio, di spada d’acciaio temperato, avventurieri incalliti,
nobili in disgrazia, spavaldi, vendicativi, fieri di sé e della loro
arroganza, impavidi, irruenti, impietosi e soprattutto in miseria e assetati
di ricchezze e tesori. Per loro la ricerca dell’oro era l’unico scopo, che
li aveva spinti in quelle terre lontane, pronti a tutto e principalmente non
avevano più niente da perdere! Il loro capo non era da meno.
Era l’anno
1532 quando gli Incas furono travolti da un destino inesorabile di violenza e
distruzione.
Una energia
che non spiega, non racconta, attraversa un piano di coscienza per arrivare
all’anima senza parole, piena solo di dolore, apportatrice di pena immensa
per chi è sopravvissuto. Hanno visto nemici trionfare senza lotta, ardere le
loro dimore, predare la roba, trucidare i fanciulli, menarli prigionieri,
violare le donne, impossessarsi dell’oro sacro per impinguarsi, nemici dal
duro linguaggio mostrare ciò che sapevano volere. In un disordine macchiato
di rosso come il fuoco che brucia, il tuonare degli archibugi si scatenava,
tra grida, rantoli e pianti pieni di tormento, e ancora voci acute, urla
disperate…parole incomprensibili. Le cavalcature selvagge hanno calpestato,
hanno imbrattato, violato, saccheggiato, schiacciato un mondo fatto di esseri
inoffensivi, di paesaggi maestosi, immobili nella loro regalità in uno spazio
primordiale d’armonia, dove s’è insinuato il terrore e l’orrore, che ha
rotto gli argini del flusso della vita. Hanno subito un mondo di passioni,
dominato dalla violenza, dalla superbia senza regole e senza ordine alcuno.
Là con il
tempo, dopo aver leccato le proprie ferite una ad una, innanzi ad un uomo
rapace e alla sue truppe rozze, che non rassomigliavano affatto ai loro
principi ed ai loro nobili guerrieri, nei sopravvissuti e nei loro figli
s’era introdotto il torpore, la disarmonia, l’incertezza, la paura, il
silenzio, un’apparente rassegnazione dinanzi alla distruzione d’un potente
impero. Figure mute, fedeli alla consegna di tacere, incapaci di dire una sola
parola, che tradisse il loro pensiero, ieri e tuttora sono come statici
personaggi dipinti su una tela. Loro i discendenti degli Dei, si sono
addormentati di un sonno profondo, i figli del Sole hanno perso i loro colori,
la loro gioia d’esistere.
Non hanno
saputo resistere alla paura del mostruoso, degli incubi, del terrore. E’
forse un debito antico da pagare per un popolo intero? Molti di loro, dice la
leggenda, sono scomparsi in maniera misteriosa portando con sé il più grosso
tesoro mai esistito al mondo, che un numero imprecisato di avidi ricercatori
da tempi remoti brama tuttora di trovare. Forse sono tornati a quel mondo da
dove erano partiti i loro antichi antenati, forse per la disperazione di aver
perso la loro dignità, si sono immolati sugli altari dalle pietre ciclopiche
di Machu Pichu come sacrificio nella sacralità dell’anima in attesa della
ricongiunzione allo Spirito Universale.. . oppure? E’ un mistero che nessuno
è finora riuscito a svelare.
Immersa
nelle mie considerazioni, guardavo assorta fuori dall’oblò, era già tutto
un ricordo in rilievo ed era difficile tradurlo in parole. Come quando si va
per la prima volta in un luogo e si ha l’impressione di esserci già stati.
Sentivo forte il rombo dei motori ed era come se dentro di me mi risuonasse
l’eco di antiche voci. Esse sapevano che le avevo comprese. Il Sud America
ed i suoi umori nascosti – pensai – è un livello spirituale dell’anima.
Sentivo un
turbamento fatto di emozioni miste ad un rimpianto di cose perdute e
ritrovate, che volevo nascondere e insieme nascondermi. Quando ci nascondiamo,
significa che cominciamo a prendere coscienza per ritornare a noi stessi, da lì
ricomincia il nostro nuovo cammino umano.
Erano
trascorsi tre anni e mezzo ed erano volati. A distanza di anni posso dire
senza alcuna incertezza che sono stati i più belli e sereni della mia vita,
non ho rimpianti, ma sono felice di averli goduti, ringrazio il Signore e
aggiungo okalà…
L’aereo di
ritorno verso l’Italia, filava veloce sorvolando quell’altra parte di
mondo che dall’alto vedevo nitido e chiaro.
In Perù
dopo 15 giorni il turista riesce a vedere solo uno spicchio e crede
superficialmente di aver capito e visto tutto. Se ci si ferma di più tempo,
come ho fatto io, ci si rende conto che la vasta realtà di Tahuantisuyu e dei
Figli del Sole, la loro cultura, la loro anima è molto più complessa, molto
più antica, molto più profonda, molto più ampia.
Come parlare
di tutto questo, come descrivere questo mondo a cui mi ero appena affacciata?
Descrivere un’emozione, non significa averla veramente compresa nella parte più
profonda dell’anima. Sono qui, percepisco tutto quello che ho sperimentato
attraverso ogni mia personale sensazione, ma sento anche un rifiuto quasi
tragico a tradurlo in scrittura, come se fosse impossibile accostare le parole
per esprimere quello di cui, dopo lungo tempo, ho appena iniziato a prendere
coscienza.
Non è
raccontare una storia. E’ il contrario, è raccontare tutto e l’assenza di
tutto. Ho ripetuto molte cose e non ho detto ciò, che invece avrei voluto dire.
Si potrebbe dirlo in altro modo, ma è una memoria antica che riaffiora, con
ogni sua emozione, con ogni suo remoto terrore, con ogni giusto desiderio
d’amore in ogni sua visione nota nel non ricordo della personalità presente.
E’ come un
ballo che si ripete in una sera d’estate, fa cerchi concentrici intorno a me,
sempre più larghi fino ad invadere tutto lo spazio… succede anche quando si
scrive.
Al momento di
mettere giù una frase, il soggetto cambia e senza rendermene conto sono
arrivata alla fine.
Il giorno dopo
mi trovo a scrivere un’altra cosa, ma sento d’aver scritto tutto con poca
chiarezza. Volevo dire troppo, volevo esprimere ogni emozione nascosta, tutti i
miei ricordi presenti e remoti, non della mente, che spesso mente, ma delle
profondità dell’anima e nel limite della materia in cui esisto… mi sono
mancate le parole per farlo.
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