)*(Stazione Celeste)

energie di luce

Canalizzate da Anna Maria Artini

 

  

 

I miei tre anni e mezzo tra i Figli del Sole

(Il resoconto dell'esperienza in Perù di Anna Maria)

 

Figlie, sorelle, madri della Madre, figlie della Figlia, della Sorella in Amore rinnovate nell’atto dai quattro elementi della Natura Madre di ogni madre, ha scosso e scuote la percettività di ciascun’anima anche la più insensibile all’Amore del mondo e all’Amore verso se stessi.

Dopo ore di volo, il comandante ci comunicò che stavamo per atterrato. Era notte, guardai fuori dall’oblò, molte luci brillavano sulla distesa d’una metropoli. Erano ventidue ore che volavo e fui felice d’essere finalmente arrivata. Ero arrivata a Lima, la capitale del Perù. Mio marito ci aspettava impaziente all'aeroporto. Mi attaccai la figlia di pochi mesi a tracollo, presi per mano il più grande di due anni e mezzo e tra borse e zaini stravolta misi piedi per la prima volta, quasi come Cristoforo Colombo nel Nuovo Mondo!

Nel contenitore della memoria si ravviva la mia esperienza vissuta per tre anni e mezzo in Perù. I ricordi sono come sprazzi di sole che rischiarano la via attraverso il denso fogliame della giungla delle mie reminiscenze.

Lima la horible come il titolo del libro di Sebastian Salazar Bondy, Lima la criolla, Lima l’antica città coloniale, che sa odiare fino ad amare e, tanto diversa dalle altre capitali latino – americane.

Fu fondata nel 1535 da Francisco Pizarro, inizialmente con il nome di Ciudad de los Reies. Fu sede del vicereame dal 1542 e capitale spagnola delle colonie americane.

Il barocco e sfarzoso stile delle costruzioni delle chiese e degli antichi palazzi per opera dei dominatori, sono carichi di ornamenti pesanti, quadri e sculture oppressivi, sembrano l’ossessione degli spagnoli nel voler aggredire sopraffacendo la cultura e la religione del popolo degli Incas.

E’ singolare e cinica questa Lima con il suo folclore, la sua musica vivace; quella criolla della costa, lenta quella della Sierra di una tristezza struggente. Agli angoli delle strade, cantori senza età e senza tempo, vestiti con i tipici indumenti dei contadini indios, con rozzi strumenti fatti di canne, suonano remote arie malinconiche, echi di memorie lontane che rievocano ricordi di miti, di divinità giunte dal cielo, dei templi solari dell’Inti, del tuono, dello splendore delle vesti del fulmine, delle cime della montagna sacra, dell’energia dello Spirito, di sacrifici offerti agli Dei degli uomini, della Sierra, dei picchi aguzzi e selvaggi che bucano il tetto del cielo. Canti che riassumono l’umore di una cultura antica di un popolo, che si culla con i propri canti soffrendo d’essere stato duramente offeso e spogliato della propria dignità. Le danze polkitas, l’architettura coloniale accanto ai grattacieli altissimi d’importazione made in U.S.A., il linguaggio lento e cantato, i riti religiosi retaggio di vecchi culti forzatamente fusi con quelli successivamente importati da missionari e gesuiti un tempo, dalle multinazionali oggi, i chinos de l’esquina, (i cinesi con i loro negozi d’alimentari all’angolo delle strade) la giovane letteratura cruda e tagliente, l’arte, i murales, la difficile politica, la cucina dagli odori forti, dai sapori selvaggi, el rocotto rellenos che brucia la bocca per un giorno intero, il pisco o la chicha e Jiron de la Union sono vivi ancora dentro di me e stampati a lettere indelebili.

Si dice che il Perù è Lima e Lima è Jiron de la Union (la strada più elegante del centro) pieno di luci colorate e di negozi un po’ retrò. Là si trova anche il palazzo del luogotenenti di Pizarro, uno dei più antichi del continente dopo la scoperta di Colombo.

Città particolare, combinazione di vecchio e di nuovo, contrasti che stonano e si combinano, stridono, si amalgamano convivendo insieme. La varietà degli opposti esistenti è la prova di un’abitudine di un vissuto a doppio fondo. Una per esaltare le grandi fortune dei discendenti dei conquistadores rapaci, ristrette ad un numero di un centinaio di potentissime famiglie, e l’altra, la vasta maggioranza, che mette a nudo abissali miserie.

Per i superstiti del genocidio spagnolo, l’esistenza non è mutata molto, il potere economico-politico è nelle mani dei discendenti di coloro che in passato li hanno vinti.

Oggi poiché non s’identificano con il popolo indio, contribuiscono a sfruttarlo ed impoverirlo maggiormente.

Eppure nonostante gli sconvolgimenti sociali, a dispetto di qualunque tipo di coercizione, la cultura andina sussiste e possiede una sua peculiarità. E’ vero che tutto è mutato nel tempo, ma è anche vero, che la conversione forzata al Cristianesimo, pena la vita, gli usi ed i costumi coercitivi introdotti dagli spagnoli, non sono riusciti a trasformare la spiritualità innata ed il modo di essere degli indios, in contadini spagnoli.

I nativi, esclusi da ogni potere economico e politico, dalla scolarizzazione, dalla tecnologia avanzata, continuano a vivere come un tempo lontano. Sebbene vi sia una lenta evoluzione come in qualsiasi altra parte del mondo, per loro avviene in maniera assolutamente originale. Poco importa se l’immagine non sia conforme alla realtà storica.

Passeggiano attraverso tempo e spazio, riflettendo inconsciamente sulla loro spiritualità, conservano e comprendono i valori morali più profondi ed in particolare l’amore della famiglia. Non hanno il desiderio del possesso, le loro case anche in tempi passati erano piccolissime, perché servivano per riposare, la terra è un bene di tutti ed i frutti sono una ricchezza elargita dalla natura, per cui i confini non hanno ragione di esistere. Fino all’ultimo rispettano gli anziani, li amano, li accudiscono onorando la loro esperienza e saggezza, tutti i bambini crescono come i figli di tutti con affetto e solidarietà. Sperimentano gioia, tristezza, risate, dolore, fede e tanta speranza, qualità unica e vera della specie umana, troppo spesso dimenticata. Essi continuano a vivere nel cuore dei diseredati e con determinazione ed ardore guidano, da veri guerrilleros, la loro rivolta antica, con mezzi moderni, battendosi con coraggio per una condizione di vita più umana, come predicò e cercò d’insegnare millenni fa il figlio dell’uomo e figlio di Dio. L’incontro con queste anime nello stato della materia, è una sovrapposizione di stati, uno sull’altro, uno dentro l’altro, stretti in un abbraccio fittissimo e si dimentica che il mondo è fuori ad aspettarci. Il passato abbraccia ogni angolo ed è nel cuore della gente da generazioni. Quando da forestieri si giunge a Lima con la testa piena di futuro, non si capisce perché, questa energia viene lentamente sostituita da un retaggio coloniale spagnolo, che si respira dovunque ancora troppo vivo. Spiritualità e sottomissione coloniale convivono annodati da un vincolo perverso.

Quando per la prima volta percorsi in taxi l’Avenida Arequipa, provai una strana sensazione di spazio a cui non ero abituata. Larga quattro corsie, lunga dodici km., in mezzo fiancheggiava per tutto il percorso un giardino pieno di fiori.

Nel vecchio continente siamo abituati a spazi ristretti, a strade anguste e molto più corte, circondate da reti fittissime di raccolte piazzette dai vetusti palazzi di nobili casati vecchi di secoli, vicoli e vicoletti straziati da incubi e da storie misteriose, di cui si avvertono malevoli tracce incise su ogni pietra.

I palazzi modernissimi del centro, il traffico veloce, in cui gli automobilisti non rispettano il rosso, indios dalle facce rassegnate e dal passo lento, impassibili ai clacson, come addormentati ad ogni incrocio rischiano la vita, l’odore acre del fumo dell’anticuchio de corason, (cuore cotto alla brace su fornelli di fortuna), in periferia bambini dai volti sorridenti completamente nudi si bagnano in pozze di acque stagnanti, donne dai tipici cappelli sedute sui talloni vendono ai margini dei mercati cipolle o aglio, piccoli gruppi di disperati con dignità elemosinano cibo, e l’umidità, tutta l’umidità della terra condensata in quel pezzo di mondo. Queste ed altre sono solo alcune caratteristiche più evidenti.

Un mondo difficile, aspro nella sua durezza, che si finisce per amare, ma Lima non è solo questo. Ancora oggi sento la nostalgia di quel mondo misterioso, sebbene sia difficile accettarlo subito. La vita ha un ritmo magico per chi ci vive, la calma indifferenza e l’indifferente serenità del popolo, sono la loro virtù per sopravvivere. Il mio sguardo era puntato sul loro mondo dello spirito. L’accettazione di grandi sofferenze mutano il dolore in qualità, che nessuno potrà loro sottrarre. E’ il percorso di dure esistenze, che dispiegano la loro storia di affanni in una grande resistenza umana.

E’ un grande insegnamento, in cui si prende coscienza, che nell’uguaglianza dell’umanità, vi è tanta ineguaglianza per natura e che pertanto va accettata ed amata per quella che è, senza cercare di renderla per tutti uguale. Tutti, anche il più povero, ha accesso alla Divinità, ma ciascuno vi ha accesso in modo diverso. E’ infatti nella diversità, nella differenza delle qualità, dei talenti e dei debiti spirituali di ciascuno di noi, la grande risorsa per esistere nella polarità terrena. L’Universo Divino ha molteplici cammini, che attraverso l’esistenza conducono all’Unità Assoluta e a ciascuno di essi è riservata la trasformazione dell’uomo alle Sfere Superiori.

Un velo impenetrabile di spesse nuvole grigie avvolge Lima e nasconde i raggi del sole per molti mesi dell’anno. Sembra che stia sempre per piovere, ma non piove mai. Gli ignari stranieri giunti da poco, se si muniscono di ombrello o impermiabile, vengono derisi dai locali. Anche a me è successo, ricordo che risentita mi chiedevo perché ero indicata come l’oggetto di tante risatine.

Si racconta che l’imperatore inka Atahualpa, quando Pizarro gli chiese dove fosse il posto migliore per costruire sul mare la nuova città spagnola sul mare, quello gli suggerì un luogo come località ideale per edificare la capitale, ma che in realtà era il più inospitale di tutto il paese. La leggenda dice che questa fu la rivincita dell’Inca verso quello straniero arrogante, di cui non a torto non si fidava e dal quale subiva la prepotenza del dominatore.

Inizialmente nel 1535, quando fu edificata la città, le venne dato il nome di Ciudad de los Reies. In quelle zone non piove mai e non c’è quasi mai il sole, dovuto alla confluenza di correnti fredde provenienti dall’Antartide e quelle calde provenienti dal Golfo del Messico.

Per tale fenomeno atmosferico, si forma una coltre di nuvole spessissima, che ricopre totalmente la città, oltre a produrre un livello di umidità intollerabile.

Da gennaio a dicembre, salvo un mese d’estate in cui il sole compare per un paio d’ore al giorno, sembra di morire dal grigiore, ma poi anche a questo ci si abitua. In compenso non fa caldo in estate, né freddo in inverno, la vegetazione è ricca di verde e di enormi fiori colorati. Per la totale mancanza di pioggia, la polvere e lo smog formano una spessa ed umidiccia patina grigia sui muri, sui portoni, sui balconi, sui cornicioni, sugli angoli dei marciapiedi.

Gigantesche pubblicità coprono quasi per intero i grattacieli. La contemporaneità è accanto a tracce indelebili di preistoria. Infatti un immenso albero pluricentenario con tanto di targa, dà sfoggio di sé nel mezzo della residenziale ed elegante piazza di Miraflores a due passi da muri caoticamente dipinti con figure geometriche dalle tinte aggressive. In ogni angolo di strada vi è una chiesa, vi sono tante chiese dovunque. Forse sono state edificate per chiedere un futuro tacito condono ai sopravvissuti del genocidio di una civiltà, oppure solo luoghi di speranza per trovare la forza di portare avanti pene, rinunce, privazioni tollerate da intere generazioni dominate e trucidate, ma non sconfitte, perchè l’uomo non può essere sconfitto. Torturato, trucidato si, ma sconfitto mai.

La città sorge molto regolare su un altopiano che si affaccia sul mare. Le strade ampie e perfettamente diritte s’incrociano ad angolo retto come l’ordito di una tela. Le abitazioni residenziali e gli spiazzi prospicienti hanno ampi spazi circondati di verde e tanti fiori dai colori intensi. Nel centro della city è più evidente la parte coloniale spagnola. In un’ampia area sorge la cattedrale, il palazzo del vicereame, quello del municipio ed altri edifici pubblici. Essi hanno sfidato gli assalti del tempo e ancor più le scosse dei terremoti, che spesso in passato hanno distrutto parte della città. In periferia los barrios sudati e fetidi, popolati da capanne fatte di lamiera, cartone e fango abitate dalla povertà dei meticci, da andini smarriti e spaesati che cercano di sopravvivere e da smunti asiatici, senza acqua corrente, né fognature, dove malattie e fetore regnano sovrani.

Tutti hanno sul volto la stessa espressione di antica oscura infelicità, da essere diventata un loro tratto somatico che li fa rassomigliare. L’atteggiamento è rassegnato di chi da generazioni è stato sopraffatto da un potere insolente e che per sopravvivere continua ad essere dominato da vecchie forze occulte. Le fronti sono rugose, l’andatura è lenta e frenata, lo sguardo è assente e rassegnato, non si sa quello che pensano, i gesti sono sfumati, pazienti, incoerenti. Sono come antiche statue dai volti solenni, votati a nascondere segreti profondi. Sembrano in stato di trance, eppure nel passato come nel presente hanno condotto lotte violente e covato passioni. Tutti e principalmente gli indios, sembrano esistere in un incubo ipnotico da cui non riescono a risvegliarsi, affianco ad un’indicibile nostalgia per la loro intima personalità, per la loro anima più vera da troppo tempo smarrita. Sembrano avere un rimpianto incolmabile per la distruzione di qualcosa, di cui sanno che esisteva, ma non ne serbano più memoria. In realtà tutto il Sud America non va visitato da turisti distratti impegnati a riempirsi le tasche di souvenir, ma va sentita come una condizione dello spirito.

Donne minute con l’aria imbronciata, portano quasi sempre un bimbo sulle spalle, stazionano nei pressi dei mercati e sedute sui talloni vendono manitas ( cioè quella quantità che entra in una mano ) di aglio, fagiolini, cipolle o legumi. Sotto vecchie bombette marroni con gli occhi socchiusi, con la mente rivolta ai loro personali pensieri, in apparenza sono impassibili a tutto il resto che le circonda.

In tutto quel mondo c’è una parte antica ed un’altra modernissima in opposizione. Accanto ad architetture barocche coloniali troneggiano gli altissimi grattacieli. Ampie ville lussuose ed ultramoderne, costruite da noti architetti statunitensi, sono la dimostrazione di fortune immense, circondate di verde e coloratissimi fiori a San Isidro, Miraflores ed in altre zone residenziali. Alla particolare Barranco, nell’avenida Pedro de’ Osma, vi sono numerose e lussuose ville, tutte di proprietà dei de’ Osma, discendenti di un’antica famiglia spagnola che, prima dell’indipendenza, ha coperto cariche di Vicerè incaricati dal Re di Spagna.

Sono originarie costruzioni in autentico stile coloniale. Al centro la più grande è a tre ampi piani con un numero enorme di stanze, ove prima vivevano gli ultimi eredi di quella potente dinastia, proprietari di molte centinaia di ettari di terre, innumerevoli capi di bestiame, miniere di argento, rame, ecc., oggi è un museo con pregevoli opere ed oggetti d’arte in stile coloniale, donato allo Stato, quando la famiglia si è estinta.

Poco distante la periferia maledetta, dai tetti di lamiera contorte, circondate da rifiuti e discariche malsane. Una stonatura, ma a lungo andare sembrano l’uno la compensazione dell’altro ed ogni cosa si muove sempre con moto rallentato. I ritmi di vita appartengono al loro mondo.

- <<No se preoccupe pués – mi sentivo dire almeno un paio di volte al giorno - manana, manana pués.>> A lungo andare, quel modo di pensare, mi era entrato dentro. Avevo imparato a lasciar correre ed avevo compreso che si poteva vivere anche meglio senza ansie stressanti, senza fretta spasmodica. Per me non è stato difficile abituarmi a quel modo di vivere, invece durissimo è stato al ritorno ritrovarmi in una realtà in cui non mi riconoscevo più. Quel mondo all’altro capo dalla Terra mi era più congeniale, sentivo di conoscerlo dentro di me, mi era comprensibile ed avrei voluto riappropriarmi di antiche conoscenze riposte nella mia memoria assopita.

Gli spagnoli dalla metà del ‘500 fino all’indipendenza, hanno alternato la persuasione alla violenza, creando una frattura insanabile tra gli antichi costumi dei nativi e la società coloniale. Mi sentivo sopraffare da una ribellione che sentivo provenirmi dalle mie radici profonde e non sapevo darmi una giusta motivazione.

Per le continue sopraffazioni compreso le malattie importate dall’Europa, venivano decimate intere comunità e recise le radici di una cultura che aveva raggiunto un’evoluzione nell’arte orafa, nel vasellame artistico, nella medicina, nella chirurgia.

Nel cercare di annullare una civiltà, si era creata una frattura incolmabile tra l’antica cultura e la società moderna. Oggi del loro passato spirituale, così strettamente legato a remote conoscenze, ben poco si conosce poiché essi difficilmente condividono con estranei i segreti dei loro antichi valori spirituali. Si compiacciono a rincorrere i fantasmi dei progenitori, si dichiarano i loro discendenti legittimi, ad essi si sentono stretti per legami di sangue e, sebbene non se ne rendono conto, hanno fuso la loro antica cultura con quella dei conquistatori nella religione e in altri aspetti dei costumi, per cui spesso quelle preziose conoscenze solo apparentemente, sono andate perdute.

Nel contrasto in cui vivono queste popolazioni, sono costrette ad aderire e partecipare ad un modello di vita con culture tanto diverse, che non appartenevano loro in passato, come nel presente. Per sopravvivere si sono fatti spogliare prima dall’arrogante brama spagnola, oggi subiscono la soggezione del grande fratello del nord continuando con lo stesso disagio e la stessa povertà, che li costringe ad emigrare. Il più forte rancore che tacitamente provano verso gli antichi e nuovi dominatori, non è tanto l’aver sopportato una sottomissione, quanto di aver subito la conquista delle loro anime ed essere stati il più delle volte spersonalizzati. Nessuna dichiarazione d’indipendenza davanti al mondo intero, potrà mai porre rimedio a tale offesa dell’anima. Gli spagnoli si sentivano un popolo di gente civile, orgogliosamente cristiano. Essi portando in nome della religione il messaggio di salvezza a quei popoli, li sterminarono o li ridussero in schiavitù.

Dopo il primo incontro con il Perù antico e coloniale attraverso le testimonianze della costa, affrontai il percorso che da Lima conduce alla Sierra, per raggiungere il Cusco.

La Sierra è un mondo particolare. La sua stessa conformazione, una piramide naturale che si eleva dal mare verso il cielo, un’isola emersa in una grandiosità immensa, la rende unica. Le proporzioni in cui si evolve la natura in queste regioni, sono così colossali, che solo contemplandole da una certa altezza a grande distanza, si possono percepire in tutta la loro magnificenza. Poche opere della natura riescono a dare un’impressione più grandiosa. Una montagna si eleva su un ‘altra, il bianco nevoso brilla al sole al di sopra delle nuvole e cinge le vette come un diadema di diamanti. Se si osservano bene in esse vi è la polarità maschile e femminile, che svettano verso l’infinito in un amore incondizionato. Non è solo un’emozione, è uno stato d’essere e non proviene da una relazione con altri, proviene dall’interno di se stessi.

La varietà di ambienti e l’incredibile diversità di vita vegetale e animale ne fanno un modello per il resto del mondo. I giorni e le notti sono di uguale durata per tutto l’anno, così anche non vi sono variazioni climatiche stagionali. E’ il cuore del mondo, come dicono loro. E’ la verità.

Tra precipizi spaventosi, violenti torrenti, valichi mostruosi, creste che s’innalzano oltre ogni meta, appollaiati s’intravedono paesi e villaggi fra orti e terrazze coltivate ad un freddo nordico dei tropici. Dopo aver superato altopiani, valichi e picchi della Cordigliera e dopo aver attraversato città e centri incaici, percorsi dai conqistadores, dai cacciatori di tesori, dagli incas in fuga, passando tra paesi pittoreschi, scorci stupefacenti, burroni impressionanti, si arriva all’Ombelico del Mondo: il Cusco.

.La leggenda racconta che con l’aiuto di Manco Capac, sua sorella e sposa Mama Oello, inviati dal Dio Sole, furono poste le fondamenta della città sacra, che divenne poi la capitale del regno degli Inca a 3400 metri d’altitudine distesa tra il verde.

E’ l’Impero dalle origini leggendarie, dove un gruppo di guerrieri, dopo aver fondato la città, creò una dinastia capace di conquistare con rapidità un territorio immenso.

Lassù, tra le sue mura è racchiuso e nascosta la più vasta testimonianza di una potente civiltà scomparsa.

Il nome originale di quel vasto impero era Tahuantisuyu. Perù è solo un piccolo fiume che sfocia nel Pacifico. Tale nome fu dato in seguito da Pizarro per indicare il limite del territorio da lui governato, concessogli dal re di Spagna.

Tahuantisuyu era una vasta area dalle origini antichissime, in cui erano fiorite splendide civiltà le cui radici risalgono al IV millennio a.C. Sulle coste tra l’Equador e l’attuale Venezuela si risale ad una civiltà esistita intorno a 10.000-6.600 a.C.

Molte civiltà si sono susseguite nella Sierra e sulla costa e tutte hanno raggiunto un elevato grado culturale.

I primi abitanti andini rivendicavano origini divine molto antiche. Gli incas si affacciarono alla storia intorno al 1000 d.C. Conquistarono quel territorio immenso popolato da oltre una decina di milioni di abitanti. Era un popolo di guerrieri, che partendo dal Cusco in breve tempo riunì quel territorio immenso. Infatti il loro merito è stato unificare le tante tribù in un solo grande paese. Non esistevano tra il popolo disparità economico-sociali, non vi erano né ricchi, né poveri. Vivevano con dignità ed avevano raggiunto un perfetto sistema di giustizia sociale, i diritti giuridici ed umani erano rispettati, come venivano rispettate le leggi, che erano poche, ma severissime. Le leggi erano emanate dall’imperatore e poiché l’Inca aveva mandato divino, possedeva natura divina, quindi violare le leggi significava compiere sacrilegio.

Al condannato veniva inflitta la pena, senza nessuna crudeltà, ma pochi erano i criminali, perché la legge veniva scrupolosamente rispettata.

La terra era coltivata dalla popolazione. Prima lavoravano le terre appartenenti al Dio Sole, i cui proventi andavano a coprire le forti spese dei riti, delle feste sacre, della religione, dei templi delle Vergini sacre e del clero, poi si lavoravano le terre dei vecchi, dei malati, delle vedove e degli orfani, dei soldati in servizio, insomma di tutta la comunità che era impedita ad occuparsene. Poi potevano lavorare il proprio terreno, con l’obbligo per tutti di aiutare con solidarietà il vicino in difficoltà. Infine si lavoravano le terre dell’Inca con grande cerimoniale da parte della popolazione al completo.

Un sistema di migliaia di chilometri di strade larghe, da due a sedici metri, garantivano le comunicazioni dal Venezuela all’Argentina con un’efficiente organizzazione di staffette che coprivano a piedi grandi distanze. In punti prestabiliti vi erano stazioni di sosta :i tambos, ma ci si poteva fermare solo con il permesso dell’imperatore. Non conoscevano la ruota, né i numeri arabi, ma erano maestri nel fare i conti attraverso un sistema di cordicelle che permetteva loro di compiere conti complicatissimi. Nel continente non vi erano cavalli, per cui si avvalevano come mezzo di trasporta solo del lama.

Per vivere in un mondo carico di fascino, bisogna inerpicarsi nell’avventura ove si può cogliere nel confronto con la natura, la durezza della fatica fisica. Un paesaggio di straordinaria bellezza si presenta più in alto quando appare Machu Picchu, ultima rocca forte sacra degli Incas, gloria dell’uomo andino e non ha ancora dato al mondo la chiave dei suoi enigmi. Lo sguardo si muove alla ricerca del particolare come un riferimento per ricostruire dalle origini quel mondo incantato, i suoi colori di fuoco, le sue forme acute, le sue grandezze ciclopiche, i suoi Templi inviolabili. Ma l’azione del Tempo, in un silenzio rotto solo dalle furie dei venti, ha plasmato tutto in una immensa, simbolica, sacra rappresentazione. Gli elementi sorti nei millenni passati, risaltano oggi in una combinazione di colori sfumati, accesi al calore di un Sole potente. Le forme in tante superfici irregolari, raccontano la Storia passata di un Tempo antico tuttora vivo. La Storia non appartiene ad un passato che sfuma nel tempo, ma ad un presente in continua trasformazione. E’ un racconto che attraversa la coscienza e va direttamente all’anima nella quiete affollata da suggestioni, sussurri, emozioni. E’ un’opera del Mondo che porta al di là del Mondo nello spazio che va verso l’Universo. La forma in cui si esprime in grossi massi di pietra squadrati, ricorda il limite della materia, ormai sopita in un ricordo smarrito, che disturba quell’immensa sensazione di beatitudine, ma è anche la spinta a nuove mete interiori, verso nuove avventure dello spirito.

Si è immersi in un mondo senza tempo della leggenda e del mito, si supera un portale invisibile non accessibile a tutti, in ogni tempo della propria esistenza e, a quell’altezza, in quella vibrazione, si riconosce un’espansione di coscienza, già conosciuta.

Apprendere una caratteristica singolare che distingueva quei popoli mi colpì molto. Due erano i vizi che l’antica gente inka odiava di più: quello di rubare e quello di mentire. Oggi la specialità del popolo dei meticci, (che sono oltre un terzo della popolazione) anche nelle caratteristiche somatiche molto diversi dagli andini, è rappresentata dai questi due vizi tanto aborriti da chi li aveva preceduti in altri tempi. Chi in tempi remoti raramente se ne rendeva colpevole, doveva espiare la colpa con la morte. La motivazione era, che così il bugiardo non poteva più mentire, né il ladro aveva più occasione di rubare. Oggi invece mentono solo per abitudine o per il gusto di farlo specialmente verso gli stranieri.

Lo fanno per una furberia criolla? E’ piuttosto un misto di sfacciataggine e cinismo per divertirsi. A volte mentono senza neppure un vero motivo. Perfino in tribunale e sotto giuramento, non si è certi se dicono la verità. La stranezza è che compiono la mistificazione con espressione imperturbabile, senza preoccuparsi se fanno bene o male. In realtà è un meccanismo di difesa il più incredibile e fantastico. Per loro la più spudorata menzogna viene raccontata con grande naturalezza nella vita quotidiana, nella politica, nell’amicizia e perfino nell’amore. Il peruviano è un vero artista della menzogna, che non ha il solo scopo di ingannare gli altri, quanto in primo luogo d’ingannare se stesso. Lui crea una realtà fantastica nella quale si immerge fino a perdere il confine con la realtà oggettiva. E’ una creazione artistica, un sogno, un gioco dell’esistenza stessa, anche per le cose meno importanti. Infatti se si chiede un’informazione ad un passante, lui mentirà con una sfacciataggine incredibile. Nessuno dirà mai che non sa cosa rispondere, anzi si sprofonderà in spiegazioni intricate, puro parto della sua fantasia. Solo per rendersi utili, dimostrarsi disponibili, in un gioco che li fa sentire muy vivi, estroversi, simpatici, rumorosi. Sono formalisti e ciò comporta una certa gentilezza, espansività ed un’amabilità innata. In modo più nascosto però, mettono gli estranei alla prova. Può accadere che l’accettazione o un giudizio su certi aspetti del loro paese, dei loro usi, o della loro cucina può aprire porte, che nessuno si sarebbe immaginato prima, mentre commenti affrettati e poco lusinghieri sfuggiti per stanchezza, o per il gusto della battuta senza importanza, possono per sempre pregiudicare un’amicizia ed improvvisamente i rapporti s’interrompono. La reazione diventa esagerata, ma non bisogna dimenticare il senso di antica inferiorità nei confronti dell’Europa. Loro sono molto più gentili ed ospitali degli europei, ma anche più acuti ed attenti.

Per metà sono figli degli antichi figli del Sole con una forte espressione spirituale, per l’altra metà hanno il sangue di coloro che hanno trucidato, violentato, rubato perfino l’anima dei loro antenati e si portano dietro l’onta d’essere i figli minori degli europei, che non li amavano affatto, anzi li ritenevano "mezzo sangue".

Oggi fanno parte a tutti gli effetti di una grande nazione e mescolati anche ad altri popoli, che per necessità hanno emigrato nel passato, sono diventati molto più furbi e più intelligenti. Sono fuori da ogni pregiudizio e discriminazione razziale, perché inesistente, ma senza memoria dentro di loro, è rimasto una sofferenza antica. Per loro natura sono allegri e sempre pronti a partecipare a feste con musica criolla, canti, danze, tanta birra e tanto pisco.

In volo sulla Cordigliera delle Ande ero verso Arequipa, seconda città del Perù, lo spettacolo che mi appariva, era da togliere il fiato. L’immensità dello spettacolo era un misto di eccitante attrazione e spaventoso terrore. Il fascino di quei giganti dalle creste aguzze ed incontaminate era una delle grandezze del Creato. Scenari fantastici, grattacieli di rocce primordiali, precipizi, crepacci terribili, santuari di pietra, bianchi deserti di ghiaccio, cascate nate dal cuore della selva, pendii, valichi, gole profonde popolate dalle voci del vento mi apparivano tra le aspre pareti, testimoni di un tempo senza tempo. Vive, aggressive, incantate erano meravigliose creature dalle anime antiche e dai pensieri mai da altri posseduti. Altari sacri, dove la memoria della natura custodisce lo spartito di una sinfonia stupenda in cui i suoni della natura si fondono e si confondono con i suoni dei suoi silenzi. Unico vivente dominatore tra quelle altezze: il condor. Lui vola al di sopra delle nuvole ed è libero.

Dall’alto abbracciando con lo sguardo tutto e attraversando quell’indescrivibile regno di pace, provavo sensazioni misteriose e mi sentivo trascinare lontano, molto più su. Quelle rocce gigantesche, aggressive, primitive, nebbiose erano sospese tra cielo e terra su nuvole fatte di soffici veli trasparenti. Quella visione non è altro che un grande atto d’amore, un grande dono di Dio fatto ai suoi figli.

Il mio animo non era ancora placato quando l’aereo atterrò ad Arequipa nel cuore delle Ande. Una città tutta dipinta di bianco a 2500 metri di altitudine ai piedi di tre vulcani addormentati, come gli stessi indios che l’abitavano e come loro, risvegliandosi fanno del loro meglio per comunicare che sono vivi. Un Sole accecante m’investì con tutta la sua divinità. Tutto era fermo, troppo fermo e tutto intorno a me si muoveva al rallentatore. Anche i greggi di lama e di vicugna, procedevano attraversando le strade con calma a passo lento. La vegetazione arsa era dipinta di grigio ed aveva il colore dei sassi, ma proprio quell’apparente immobilità vibrava vorticosamente sprigionando energia viva.

Non basta conoscere la storia di quella gente per comprenderli, bisogna avere familiarità con le loro abitudini di esistenza e le loro condizioni di essere. La comunità tribale e la solitudine fanno parte della loro esistenza. Per un indio la solitudine nasconde fonti di vita come insetti commestibili, erbe salutari, speranze a cominciare dalle nuvole di forme minacciose, per finire alle rocce irte da superare su precipizi abissali. Chi vive sulle montagne è riservato ed è difficile che apra le porte del proprio cuore a chiunque. Penetrare nella mentalità e nelle consuetudini di un campesino andino, per un europeo è quasi impossibile. Hanno un enorme senso religioso e sono inclini verso entità che popolano i loro mondi invisibili ai quali rivolgono preghiere, voti e sacrifici. L’antico stregone è ora sostituito dal curandero, che ha appreso l’arte sciamanica da un maestro fin dalla più tenera età. Queste sono le figure più misteriose ed intriganti delle comunità andine. La risposta è che tra le enormi difficoltà umane, riesce ad elevarsi al disopra dei confini dell’animale uomo. Le credenze popolari che convivono con le credenze religiose antiche e quella ufficiale, un ruolo veramente singolare è quello che spetta alla huaka.

Huaka è un’espressione alquanto vaga e ricca di significati, indica luoghi di venerazione, i monumenti, gli spiriti dell’aria e della terra. Gli indios disponevano le huaca lungo assi ideali dal Cusco verso tutte le direzioni. E’ impiegata per indicare un’energia spirituale al di fuori e al disopra dell’esistenza ordinaria. Può materializzarsi o incarnarsi in oggetti o esseri animati, come in una sorgente, in una roccia, in un sasso di forma particolare, una coppia di gemelli o in una persona con facoltà particolari. Si indicavano anche i luoghi che l’Inca aveva frequentato, i templi, l’energia dello spirito che poteva materializzarsi ovunque. Lungo le strade che costeggiano i pendii più pericolosi o in quelle considerate spiritualmente significative, ove l’energia è considerevole, s’incontrano anche ora, cumuli di pietre che chiamano apacheta. I passanti deponevano e depongono un sasso o un qualunque oggetto che portavano con sé, si fermavano a pregare chiedendo protezione. La città del Cusco è considerata huaka per la sua sacralità. Per l’indio convertito al cristianesimo, Gesù Cristo era una huaca cattolica .

Agli spagnoli, però non piaceva questa credenza. Braccati dai preti cattolici e da essi perseguitati, venivano privati da tutte le huaca in loro possesso. Diventava una lotta per estirpare le credenze millenarie dei nativi, come l’abolizione delle feste religiose, che venivano egualmente celebrate, ma in luoghi segreti. A distruggere ogni oggetto di culto idolatrico furono soprattutto i gesuiti. Le piume, i tessuti per le feste, le conchiglie come strumenti musicali, perfino le culle venivano bruciati in grandi roghi purificatori. Canti ed inni tradizionali erano proibiti, come anche le pietre raffiguranti huaca protettivi. Per convertire gli indios al Cristianesimo, dovevano distruggere il loro passato antico di millenni, ma non sempre ci riuscivano, nonostante applicassero la pena di morte.

Anche da noi vi sono luoghi energetici, ove sono sgorgate sorgenti benefiche e riteniamo quell’acqua miracolosa e guaritrice di malanni. Preghiamo, vengono officiati riti religiosi e, le apparizioni avvenute, fanno ritenere quello stesso luogo sacro. Abbiamo santini e riteniamo che ci proteggano dalle sventure e dai malanni. Invece di erigere cumuli di sassi, costruiamo nicchie con l’effige di un santo o appendiamo al collo una medaglina sacra per la nostra fede. Per gli indios di quel tempo sarebbero state le nostre huaca…

Sulle Ande raccolsi un sasso, che tuttora conservo gelosamente, dalla forma di un grande uovo nero, liscio, levigato dall’acqua. Quando lo stringo fra le mani dopo pochi minuti diventa bollente e se lo metto su una parte del corpo dolorante, dopo poco il dolore si attutisce…quello è la mia personale huaka.

Nelle grotti naturali sulle Ande, esistono centinaia di sorgenti di acqua calda e fredda con forti vibrazioni energetiche, che sono ritenute popolate da spiriti benefici. Ogni andino possedeva e possiede una huaka personale, che corrisponde al suo doppio, una specie di gemello, nel quale risiede lo spirito protettore. Può essere un oggetto, una pianta, un animale oppure un sasso o un cristallo con poteri ritenuti magici. Che sia vero o falso, non importa, è ciò che si crede con fede che lo rende verità.

L’esistenza degli indios della sierra è durissima e povera. Hanno degli schemi spirituali che rispettano e sono prudenti perché si sentono esposti all’ira di potenze invisibili della natura che li circonda. Prima di attraversare un fiume, bevono un po’ di quell’acqua. Nel superare una vetta aspra e difficile, se non c’è già una huaka, lanciano un sasso sull’orlo del sentiero per chiedere protezione e rendere omaggio alla stessa cresta elevata. Vivono in capanne fatte di paglia umida impastata col fango. Quasi ogni famiglia possiede un lama che costituisce una grande fonte di ricchezza, per il latte che produce, per la lana che viene tessuta e lavorata, per il trasporto di pesi, per il calore che emana nelle lunghe notti fredde ed infine in vecchiaia, per la carne del suo corpo. Spesso ho visto donne dalle larghe e coloratissime gonne lunghe, dalle bombette sul capo, andare a passo sostenuto su creste e altopiani con un bambino sulle spalle, filare con ambedue le mani, accompagnate da un lama ed insieme salire a passo veloce su stretti ed impervi viottoli.

In chiesa nei giorni di festa accoccolati sul pavimento prima della messa singolarmente nel centro di un cerchio formato da candeline ed incensi accesi, comunicano con la Divinità, pregano e raccontano con parole semplici la loro vita e le mille difficoltà quotidiane.

Le donne hanno volti riarsi e labbra serrate da un silenzio atavico, gli uomini hanno gli sguardi impenetrabili e senza tempo, i bambini hanno bellissimi occhi vivi ed intelligenti, ma sono troppo seri per la loro età. Tutti sono intenti a pregare con devozione Dio, che non è più quello degli antenati , né quello imposto con la forza dai conquistatori, ma forse è la giusta fusione dei due. Loro sanno che Dio è unico e non vi è differenza tra Wiracocha, il dio creatore, che dall’oscurità portò gli uomini alla luce e il Dio della Bibbia che creò la Luce e dettò le Leggi ai suoi figli mortali.

Essi hanno compreso molto prima di noi, (mi riferisco ai popoli preincaici) che la fonte della forza vitale, che anima ognuno per esistere, non è qualcosa da temere. Con semplicità affrontano ed accettano che tutto si trasforma, non attraverso complicati trattati filosofici, ma solo senza temere la vita in se stessa. La paura nasce dall’incertezza, loro sanno quale è lo spirito e l’amore della Terra. Vedono, sentono con semplici frequenze vibratorie e quando il tempo è giusto ed appropriato tutto diventa visibile, come lo spirito di ogni altra cosa che appartiene alla natura, con cui sono in equilibrio in modo rispettoso. Sentono il respiro della Terra, la Madre di tutti e si servono dei suoi doni per riportare equilibrio in se stessi. Senza problemi esistenziali hanno imparato a fidarsi e nella sofferenza, che non li risparmia, a vivere la trasformazione giorno dopo giorno fin dai tempi dalla creazione. Il Cielo, le Stelle, i cambiamenti climatici, la Luna sono un tutt’uno con la loro stessa vita. Anche nei momenti peggiori nessuno maledirà questa grande Madre, dirà una preghiera seguita da Okalà(=voglia il cielo che…). Sanno chiedere la protezione e raramente vengono traditi dagli dei del loro antico mondo. Sanno che sono tornati e con loro uniti e senza dirlo, sanno anche di essere i Re della Natura.

In un’esplosione di colori vivaci in onore alla vita, le donne nei mercati all’aperto sotto il sole dei tropici, sedute sui talloni vendono nastri colorati, tovaglie, stoffe variopinte, tappeti tessuti a mano, camice di cotone ricamate, corpini di lana decorati con abilità ed altri manufatti artigianali, assieme a cavoli, erbe curative di vario genere, foglie di coca, pannocchie di mais, patate dolci, fagioli ed altro. Dai cappelli di foggia e colori diversi si riconoscono le regioni di provenienza. Tutto disordinatamente è ammucchiato a terra su grandi teli variopinti. Una attaccata all’altra si dispongono in un grande cerchio e formano così una grande forza energetica, compreso neonati e bambini che giocano, fanno capriole o dormono nella piazza principale davanti alla chiesa.

Sono indifferenti di fronte alla morte come lo sono di fronte alla vita, perché sono ambedue parte della vita stessa. Per loro la vita è fatta di stenti, è breve e vale molto poco, ma la amano in maniera semplice e ringraziano per quel poco che hanno. Mantengono un certo distacco e conservano la solitudine nel silenzio come un bene prezioso. Non è la stessa solitudine dell’uomo moderno, immerso nello stress degli affari del mondo artificiale, ma quella di chi vive in un ambiente ostile, tra terra e cielo, tra pioggia e vento, tra forze contrarie e sconosciute. Sono prigionieri dei miti precolombiani e dei dogmi cattolici, misti ad altri miti preispanici, che raccontano della creazione, di Wiracocha, di Inti (il Sole rigeneratore), di divinità venute dal cielo su navi di fuoco, delle Vergini del Sole, di Noè e del diluvio universale, di stirpi reali imparentati con gli dei e con i figli del Sole, dei huaka, della stirpe di Davide, del Re Salomone, delle leggi di Mosè, della Trinità, di Illapa, del peccato originale, della verginità della Madre, di Mamacocha la madre del mare, dei Santi, di Mamaquilla la dea Luna sorella del Sole, della resurrezione del Figlio, di Pachamama la Dea Madre, degli apostoli, dello Spirito Santo… ed altro ancora.

Si sentono confusi ed orfani, immersi nel loro silenzio carico di significati e di sfumature, imprigionati in una muraglia d’impassibilità per pura difesa.

Sorvolando il deserto peruviano, lungo la cresta si scorgono rare abitazioni dal colore della polvere e dalle forme vaghe. Lo spettacolo diviene incredibile quando si incomincia ad intravedere la selva e inaspettatamente si prova una forte emozione ancora più grande. La foresta prima della Cordigliera, si presenta in tutta la sua magnificenza, in un mostruoso, confuso groviglio di rami fittissimi, di foglie verdi dalle tante gradazioni. La visione è indescrivibile ed in ogni sua manifestazione in quella fitta boscaglia dove non si vede il suolo, in cui si nascondono palpiti di vita, dei quali non si sospetterebbe neppure l’esistenza. E’ come tornare all’infanzia, a certe sensazioni magiche di racconti, di mondi abitati da streghe e da gnomi. Dall’alto si distingue un fiume, dal colore di cobalto, ha la forma del serpente sacro, che strisciando si snoda fra tutto quel verde accecante. Villaggi dai tetti di paglia, sperduti in paesaggi che non hanno nulla in comune con i nostri e dove il cielo ha il colore dello zaffiro trasparente e che si fonde a quella natura senza tempo.

Più oltre verso sud, Puno e le rive del lago Titicaca. L’unico lago salato più alto del mondo, a quattromila metri d’altezza. Per l’altitudine non vi crescono alberi, la vegetazione è povera ed è costituita da cespugli bassi e sofferti. Gli abitanti vivono di pesca, la loro ricchezza è costituita dalle canne – corrispondenti al papiro egiziano – con cui costruiscono leggere imbarcazioni. I nativi per la maggior parte, sono gli ultimi discendenti della misteriosa civiltà degli aymarà, precedente a quella quechua inkaica.

Pare che avessero approfondite nozioni d’astronomia, matematica, fisica ed altre conoscenze, presuntuosamente considerate patrimonio degli occidentali. La lingua millenaria, da cronache del tempo, si è conservata integra come era e non ha subito cambiamenti rilevanti, come accade a qualsiasi altra. Eminenti studiosi hanno ipotizzato che l’origine possa essere datata intorno a 7000/ 10.000 anni a.C. e che potesse essere la lingua primigenia dell’umanità.

A testimonianza della sua antica grandezza, è ancora usata in alcune zone del Perù nei pressi delle rovine di Tiahuanaco, a Puno, in alcuni villaggi nelle Ande e in una parte della Bolivia.

Altre culture hanno preceduto quella ultima degli inkas, infatti a più di 3000 mt. di altezza sulla Cordigliera Blanca, si trova Chavin de Huantar, luogo che ha poi dato il nome alla civiltà Chavin (850-200 a.C.).Sono rimasti le decorazioni dei templi, quasi sempre costituite da figure antropomorfe dai caratteri felini dipinti sulle colonne, sulle pareti, sugli architravi. Il culto di tale divinità era legato alle osservazioni astronomiche dei sacerdoti. Infatti la testa del giaguaro stilizzata de "l’idolo di Lanzòn" ,- posto nelle gallerie sotterranee del Tempio,- è rivolto ad oriente, al sorgere del Sole. Altri animali predatori, mostruosi esseri e scene crudeli di corpi straziati trovano la massima espressione nella civiltà Chavin, per cui si pensa che alla divinità fossero dedicati sacrifici umani. Conoscevano le tecniche della metallurgia, della tessitura, della ceramica ed avevano inventato un complesso sistema d’irrigazione per l’agricoltura. Questa cultura, a ragione è considerata la cultura "madre" delle genti andine e la radice di tutte le altre successive. Verso la fine dell’epoca Chavin e Paracas due altre grandi culture si svilupparono a nord e a sud del Perù: quella dei Nasca (200 a.C.- 800 d.C.) e quella dei Mochica ( 100 – 600 d.C.). Ambedue le popolazione vengono considerate "Maestri artigiani" per la produzione della ceramica, dei tessuti ricamati e per l’oreficeria. Hanno saputo creare un vasellame finissimo, decorato con numerose figure fantastiche. Sebbene cacciatori di teste, ci hanno anche lasciato un’opera grandiosa, uno degli enigmi più affascinanti della storia dell’archeologia. Ampie linee geometriche e simmetriche, visibili solo dall’alto, si snodano per un raggio di molti chilometri sul terreno, disegnando forme che sembrano piante, arbusti, uccelli, lucertole e scimmie stilizzati. Fin’ora sono state fatte molte ipotesi, ma nessuna è stata riconosciuta valida.

La medicina incaica, pur conservando concezioni per noi "magiche", fu uno dei settori scientifici più rilevanti, in cui si riscontrano specialmente nella chirurgia conoscenze avanzate per l’epoca. Le malattie, per loro nel passato, come nel presente hanno origine spirituale, effetti di energie malefiche di natura magica, oppure dovute a forze interiori dirette male verso se stessi. Per curare le comuni malattie, la medicina incaica usava rimedi di origine animale, vegetale e minerale. I guaritori percorrevano i villaggi muniti di droghe e di erbe di loro esclusiva conoscenza. Per combattere le infermità mentali, usavano anche pratiche di carattere magico-religioso. La chirurgia era veramente sorprendente per l’epoca\, nonostante gli strumenti adoperati. Amputazioni, trapanazioni del cranio, innesti e trapianti ossei, erano operazioni frequenti e coronati da successo.

Com’è possibile che un grande e potente impero di saggi, di politici esperti nell’arte di governare, di sacerdoti colti, di guerrieri coraggiosi, di astrologi sapienti, di guaritori dalle enormi conoscenze mediche e spirituali, di raffinati artisti dalla conoscenza millenaria, di architetti, di provetti costruttori possa essere stato distrutto in pochissimo tempo da un manipolo di avventurieri spagnoli?

Armati di corazza d’acciaio, di spada d’acciaio temperato, avventurieri incalliti, nobili in disgrazia, spavaldi, vendicativi, fieri di sé e della loro arroganza, impavidi, irruenti, impietosi e soprattutto in miseria e assetati di ricchezze e tesori. Per loro la ricerca dell’oro era l’unico scopo, che li aveva spinti in quelle terre lontane, pronti a tutto e principalmente non avevano più niente da perdere! Il loro capo non era da meno.

Era l’anno 1532 quando gli Incas furono travolti da un destino inesorabile di violenza e distruzione.

Una energia che non spiega, non racconta, attraversa un piano di coscienza per arrivare all’anima senza parole, piena solo di dolore, apportatrice di pena immensa per chi è sopravvissuto. Hanno visto nemici trionfare senza lotta, ardere le loro dimore, predare la roba, trucidare i fanciulli, menarli prigionieri, violare le donne, impossessarsi dell’oro sacro per impinguarsi, nemici dal duro linguaggio mostrare ciò che sapevano volere. In un disordine macchiato di rosso come il fuoco che brucia, il tuonare degli archibugi si scatenava, tra grida, rantoli e pianti pieni di tormento, e ancora voci acute, urla disperate…parole incomprensibili. Le cavalcature selvagge hanno calpestato, hanno imbrattato, violato, saccheggiato, schiacciato un mondo fatto di esseri inoffensivi, di paesaggi maestosi, immobili nella loro regalità in uno spazio primordiale d’armonia, dove s’è insinuato il terrore e l’orrore, che ha rotto gli argini del flusso della vita. Hanno subito un mondo di passioni, dominato dalla violenza, dalla superbia senza regole e senza ordine alcuno.

Là con il tempo, dopo aver leccato le proprie ferite una ad una, innanzi ad un uomo rapace e alla sue truppe rozze, che non rassomigliavano affatto ai loro principi ed ai loro nobili guerrieri, nei sopravvissuti e nei loro figli s’era introdotto il torpore, la disarmonia, l’incertezza, la paura, il silenzio, un’apparente rassegnazione dinanzi alla distruzione d’un potente impero. Figure mute, fedeli alla consegna di tacere, incapaci di dire una sola parola, che tradisse il loro pensiero, ieri e tuttora sono come statici personaggi dipinti su una tela. Loro i discendenti degli Dei, si sono addormentati di un sonno profondo, i figli del Sole hanno perso i loro colori, la loro gioia d’esistere.

Non hanno saputo resistere alla paura del mostruoso, degli incubi, del terrore. E’ forse un debito antico da pagare per un popolo intero? Molti di loro, dice la leggenda, sono scomparsi in maniera misteriosa portando con sé il più grosso tesoro mai esistito al mondo, che un numero imprecisato di avidi ricercatori da tempi remoti brama tuttora di trovare. Forse sono tornati a quel mondo da dove erano partiti i loro antichi antenati, forse per la disperazione di aver perso la loro dignità, si sono immolati sugli altari dalle pietre ciclopiche di Machu Pichu come sacrificio nella sacralità dell’anima in attesa della ricongiunzione allo Spirito Universale.. . oppure? E’ un mistero che nessuno è finora riuscito a svelare.

Immersa nelle mie considerazioni, guardavo assorta fuori dall’oblò, era già tutto un ricordo in rilievo ed era difficile tradurlo in parole. Come quando si va per la prima volta in un luogo e si ha l’impressione di esserci già stati. Sentivo forte il rombo dei motori ed era come se dentro di me mi risuonasse l’eco di antiche voci. Esse sapevano che le avevo comprese. Il Sud America ed i suoi umori nascosti – pensai – è un livello spirituale dell’anima.

Sentivo un turbamento fatto di emozioni miste ad un rimpianto di cose perdute e ritrovate, che volevo nascondere e insieme nascondermi. Quando ci nascondiamo, significa che cominciamo a prendere coscienza per ritornare a noi stessi, da lì ricomincia il nostro nuovo cammino umano.

Erano trascorsi tre anni e mezzo ed erano volati. A distanza di anni posso dire senza alcuna incertezza che sono stati i più belli e sereni della mia vita, non ho rimpianti, ma sono felice di averli goduti, ringrazio il Signore e aggiungo okalà…

L’aereo di ritorno verso l’Italia, filava veloce sorvolando quell’altra parte di mondo che dall’alto vedevo nitido e chiaro.

In Perù dopo 15 giorni il turista riesce a vedere solo uno spicchio e crede superficialmente di aver capito e visto tutto. Se ci si ferma di più tempo, come ho fatto io, ci si rende conto che la vasta realtà di Tahuantisuyu e dei Figli del Sole, la loro cultura, la loro anima è molto più complessa, molto più antica, molto più profonda, molto più ampia.

Come parlare di tutto questo, come descrivere questo mondo a cui mi ero appena affacciata? Descrivere un’emozione, non significa averla veramente compresa nella parte più profonda dell’anima. Sono qui, percepisco tutto quello che ho sperimentato attraverso ogni mia personale sensazione, ma sento anche un rifiuto quasi tragico a tradurlo in scrittura, come se fosse impossibile accostare le parole per esprimere quello di cui, dopo lungo tempo, ho appena iniziato a prendere coscienza.

Non è raccontare una storia. E’ il contrario, è raccontare tutto e l’assenza di tutto. Ho ripetuto molte cose e non ho detto ciò, che invece avrei voluto dire. Si potrebbe dirlo in altro modo, ma è una memoria antica che riaffiora, con ogni sua emozione, con ogni suo remoto terrore, con ogni giusto desiderio d’amore in ogni sua visione nota nel non ricordo della personalità presente.

E’ come un ballo che si ripete in una sera d’estate, fa cerchi concentrici intorno a me, sempre più larghi fino ad invadere tutto lo spazio… succede anche quando si scrive.

Al momento di mettere giù una frase, il soggetto cambia e senza rendermene conto sono arrivata alla fine.

Il giorno dopo mi trovo a scrivere un’altra cosa, ma sento d’aver scritto tutto con poca chiarezza. Volevo dire troppo, volevo esprimere ogni emozione nascosta, tutti i miei ricordi presenti e remoti, non della mente, che spesso mente, ma delle profondità dell’anima e nel limite della materia in cui esisto… mi sono mancate le parole per farlo.

 

Energie di Luce

canalizzate da

Anna Maria Artini